Maria Luigia Gioffrè (Soverato, 1990) vive e lavora tra Milano e Londra. Dopo gli studi in Scienze Politiche, nel 2017 si laurea in Contemporary Photography; Practices and Philosophies presso University of Arts London – Central Saint Martins School of Arts and Design. Co-fondatrice del progetto di ricerca e residenze In-Ruins, la sua ricerca opera attraverso media differenti indagando i processi di costruzione dell’immaginario estetico e simbolico attraverso l’azione performativa e la sua trasfigurazione nella durata e nella ripetizione.
Cosa significa essere un artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Mi capita spesso di domandarmi cosa significhi essere artisti e non giungere a conclusione. Continuamente mi interrogo offrendomi una gamma di risposte che vanno dall’artista-vate all’artista-artigiano, al creativo, al maestro di una techné. Ogni volta è un dubbio che pone in questione un’intera identità a cui non so dare un’effettiva risposta. A tal proposito credo profondamente alle parole del semiologo Paolo Fabbri, che ebbi occasione di ascoltare durante l’incipit di una lezione universitaria presso cui mi trovavo furtivamente, molto prima che iniziasse tutto questa storia di me-artista. Era una lezione di curatela, egli affermava: “Non bisogna domandarsi cosa è l’arte ma a cosa serve l’arte, la sua funzione”. Trovo che per l’artista sia valido in qualche modo lo stesso. Ci si domandi dunque: che funzione ha l’artista (nel XXI secolo)?
Quando ascoltavo quella lezione ero studentessa di diritto, tuttavia mi piaceva e praticavo molto la fotografia, preferivo seguire le lezioni che parlavano di arte, ed è così che capitai nella classe di Fabbri, in un master a cui non ero iscritta, nel 2012.
Da allora il mio rapporto con l’arte è molto cambiato. Se prima mi urgeva rappresentare una mancanza, adesso la mancanza si è fatta materia e materiale per generazione di nuove differenti immagini, talvolta completamente distanti dalla mancanza che le ha generate e perciò distanti da un processo di rappresentazione. La metodologia della mia pratica è rimasta la fotografia, che però adesso assume tridimensionalità visiva nello spazio estetico dell’installazione e della performance, la quale, nel mio lavoro, direi si fa molto più vicina al teatro che alla live art. Molti dei miei lavori sono pensati come frames di set teatrali e, in quanto isolati, con risalto alla singola azione o spazio. L’utilizzo della performance mi è recente e risponde a un’urgenza espressiva del corpo tutto, che nella fotografia delegava all’occhio ogni drammaturgia del sentire. Spesso nel fotografo può generarsi un distacco tra la riflessione e l’azione-reazione, trovo nell’attività performativa il filo che cuce tutto questo.
Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Nel comporre un lavoro non parto da una tematica, il che mi condurrebbe a una metodologia di tipo idealista e progettista da cui tento di rifuggire. Solitamente mi capita di compiere delle azioni e ritrovarne il senso, a ritroso. Penelope’s White Wall (Il muro bianco di Penelope), una performance che realizzai nel 2017, nasce prima di tutto perché da bambina diedi la pittura a tutta la mia stanza in un giorno in cui i miei genitori erano usciti. C’è, in questo senso, in tutto quello che faccio, una forte componente ludica o un bisogno emotivo poi tradotti in forma per così dire artistica, prima che un tentativo teorico o politico.
Si può dire che ciò accomuna gran parte dei miei lavori e della mia ricerca è lo studio dell’azione e della sua trasfigurazione estetica in relazione alla durata: l’azione che si ripete, l’azione che ritualizza, l’azione che si fa segno, l’azione in relazione alla temporalità, l’azione diacronica. Cerco e mi alleno per trovare una sintesi narrativa a tutto questo.
Come ti rapporti con la città e il contesto culturale in cui vivi?
Negli ultimi dieci anni ho migrato in città italiane e all’estero in Inghilterra e Francia. In questo senso mi sento molto sradicata. L’informazione in questo tempo storico viaggia online, gli opening e le conferenze sono visibili sui social network, vivo molto poco lo spazio dove abito al momento.
Sento molto stimolante artisticamente il fatto di essere nata in Calabria, che avverto una terra di forte ricchezza antropologica, talvolta fortemente intrisa dal rito, una preziosa fonte di drammaturgia. Mi sto riavvicinando molto alla Calabria. Trovo importante riscoprire una connessione con il proprio luogo d’origine, è uno spasmodico desiderio di ricongiungersi alla propria natura più semplice, alla madre.
Cosa pensi del “sistema dell’arte contemporanea”?
È un sistema, con tutto ciò che questo comporta.
Di quale argomento, oggi, vorresti parlare?
I miei ultimi lavori rivelano, nonostante me, tematiche ambientali. Aridità, perdita, nostalgia e mancanza individuale o collettiva, e la fine delle fiabe. Trovo sia urgente anche questo.
Questo contenuto è stato realizzato da Dobrosława Nowak per Forme Uniche.
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