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Pensieri di un artista isolato. Flavio Favelli

Flavio Favelli, foto Samuel Webster -Casermarcheologica Flavio Favelli, foto Samuel Webster -Casermarcheologica
Flavio Favelli, foto Samuel Webster -Casermarcheologica
Flavio Favelli, foto Samuel Webster – Casermarcheologica

Flavio Favelli e le sue riflessioni di artista “recluso” al tempo del Coronavirus. Diari letterari tra confessioni e speranze, intimi e riflessivi

Non era mai successo. Nemmeno il coprifuoco della Guerra Mondiale era così rigido: tutti a casa, mattina, sera, notte. E non era mai successo che il rapporto, il contatto con l’”altro”, imprescindibile regola del vivere contemporaneo, diventasse il nostro peggior nemico. Ci voleva un pericolo invisibile, ancor più minaccioso proprio perché impalpabile, per costringerci a fare qualcosa che ormai non facciamo più: guardarci dentro. Vivere solo con noi stessi. Un riallineamento delle coscienze, che ci permette – o forse ci costringe – a rivedere certe cose con un’ottica diversa, più “pura”. Alcuni artisti italiani lo fanno con i lettori di ArtsLife: diari letterari tra confessioni e speranze, intimi e riflessivi, un ripensamento dell’arte come scelta di vita sociale. Ecco il contributo di Flavio Favelli (una cui versione ridotta è uscita su La Repubblica ed. di Bologna il 31 marzo 2020, a cura di Paola Naldi)…

Tempo regale

L’emergenza sanitaria impone la quarantena. Lei che vive in campagna come passa le giornate?
Alla fine cambia poco, se non lo stato d’animo e la preoccupazione sospesa fra lo “speriamo che passi” e l’ambiguo piacere di questa situazione. Cercando di mettere da parte il dramma degli ospedali, delle zone rosse e dell’economia, rimangono dei momenti tutto sommato piacevoli, perchè anche la vita “normale” è troppo spesso un inferno. Se si ferma tutto, anche il mondo, non è poi così male. Per la prima volta vediamo immagini di città vuote e sono immagini più intense e più poetiche, più desiderabili di quando c’è la vita normale.

Ha più possibilità di stare all’aperto? Potrebbe essere un privilegio di questi tempi e abitare fuori dalle città può acquistare nuove valenze?
Me lo dicono spesso quelli che abitano in città, ma sono venuto qui per stare lontano dalla città e per pensare meglio alle mie opere, non per stare all’aperto. Vivo da vent’anni a Savigno, ma credo che la distanza con le persone sia molto ampia, devo dire che se c’è una cosa che mi ha colpito è la diversità delle persone che ho incontrato rispetto all’ambiente che frequento in città: non pensavo ci fosse così differenza, non pensavo che certi punti di vista fossero così pieni di stereotipi, di sicuro si capisce meglio il Belpaese.

Cosa la colpisce di più di questa emergenza? Ha paura, ansia, una nuova empatia verso il mondo?
Beh non si sente altro che dire “appena finito” o “appena si riparte” cioè la tensione è sempre verso il futuro, questa faccenda è vista ancora come un incidente, una parentesi amara, non come tempo reale, come “vero”. Si parla di quando spostare gli eventi, ma d’altra parte è da duemila anni che facciamo così. E speriamo che sia solo un incidente, anche se ognuno vuole un’autodeterminazione, virus e batteri compresi. E poi chi glielo va a dire agli amici cinesi che certi animali non si possono mangiare?

Immagino continui a lavorare. È cambiato, e se sì in che modo, il suo modo di farlo? Come si relaziona con il mondo lavorativo esterno?
Scrivo, giorni fa ho mandato un disegno a Doppio Zero, lavoro a qualche opera certo, senza commissione, alla fine produco senza un piano preciso, nonostante il mercato, ma come spesso accade. E’ sempre utile fare sapere che l’artista produce spesso senza un piano commerciale dietro e questo lo rende molto differente da tutte le altre occupazioni. Purtroppo questa differenza non è mai presa in considerazione e credo sia preziosa.

Fra le altre cose, lei ha spesso introdotto nelle sue opere, il concetto di abitazione, di casa, come memoria, come traccia personale e collettiva. Questa esperienza mondiale le sta sollecitando nuove riflessioni a questo proposito?
“C’erano le due sorelle del piano di sopra, mio nonno e mia nonna, lo zio Aldo ed Elina e a capotavola la zia Assunta. Dopo arrivava il cappone lesso con la salsa verde e mio nonno portava sempre il suo Sant-Honorè speciale. Alla fine di quel lungo pasto in cui tutti parlavano molto, arrivava il caffè nelle tazzine cinesi e io potevo finalmente aprire il mio pacchetto…” Questo è uno scritto privato di mia madre che racconta di quando era piccola negli anni Trenta: qui c’è la nostra storia, la nostra identità, che l’artista consapevole legge, nonostante i luccichii e le belle cose, come una faccenda ambigua. In fondo non ci sono tutti gli ingredienti per fare una grande guerra? E in effetti ci fu. La casa, come il cibo, sono l’identità che ci fa sentire diversi, ma ci deve essere qualcuno che ogni tanto la smonta un po’: è questo è anche il ruolo dell’artista. Beh, poi è interessante che arrivino dei medici da Cuba, un falegname di qui ha detto “ma non c’è della miseria là?”.

Flavio Favelli, Via del Corso, matite colorate su cartoncino, 29,7x21 cm, 2020
Flavio Favelli, Via del Corso, matite colorate su cartoncino, 29,7×21 cm, 2020

L’arte non esiste se non la si guarda? E allora cosa ne pensa di questo proliferare di racconti, visioni, iniziative sui social da parte dei musei e degli artisti?
Fino adesso ho avuto una quindicina di richieste, anche la Farnesina mi ha chiesto un’idea; ho fatto giusto un video per il MAXXI, un’idea per il Centro Pecci e poche altre cose, ma ora mi sono stufato. Fra l’altro nessuno pensa ad un compenso: è sempre tutto gratis e questo sembra essere una grande tradizione. A quale lavoratore autonomo con partita iva si chiede di lavorare gratis? Non c’è nessuna agevolazione nel Paese dell’Arte a vivere di arte dove, fra l’altro, tutta la classe dirigente ad ogni inaugurazione dichiara sempre che l’arte è la linfa e il simbolo del paese. D’altra parte in quasi 25 anni di lavoro, la società mi ha sempre chiesto idee e progetti solo per esigenze precise, scopi chiari. Si pensa agli artisti nel momento delle emergenze o per risolvere o fare della cose concrete, cioè l’arte come mezzo, mai come fine. Mai che la politica o l’impresa chiami gli artisti per chiedere “che fate?”: considerando che siamo il Paese dell’Arte proprio perché fin dall’antichità chi comandava si è sempre relazionato agli artisti del tempo. Come al solito, poi, mi sono arrivate delle proposte di donare un’opera per sostenere ospedali e strutture impegnate contro questa epidemia (visto che siamo globali e Wuhan è dietro l’angolo è un’epidemia perché la pandemia non esiste più, gli spazi sono cambiati); se considero che ricevo circa due-tre richieste all’anno di questo tipo (una tragica e vera emergenza c’è sempre) viene da pensare che l’artista sia visto come una persona che in qualche modo dona e basta. Si usa l’arte e non la si comprende, non si viene presi in considerazione. Perchè dovrei dare opere?

Quale sarà secondo lei l’eredità di questa emergenza?
Già i primi di marzo, cercando di riprendere dei progetti mi è stato risposto:”ora non è il momento” facendo intendere che ci sono cose più serie, anche se è di solito la risposta che ricevo per i numerosi progetti che tento di presentare negli spazi pubblici. Nonostante le belle parole, l’arte viene vista ancora come cosa superflua, bene di lusso o come una faccenda astratta oppure legata all’idea di investimento. Certo l’arte è elitaria, ma nel senso che dà punti di vista differenti, immagini diverse (da quelle che passano i media e la pubblicità) e quindi visto il clima è per forza di cose elitaria e forse è anche difficile, ma perchè di cose facili già siamo pieni fino al collo e gli artisti devono essere un po’ difficili, altrimenti che ci stanno a fare? Questa diffidenza la vivo spesso sulla mia pelle, ad esempio volevo presentare il mio ultimo libro d’artista a Palazzo Barberini, ma mi hanno detto che non è in tema col museo; un museo d’arte che non vuole presentare i libri d’artista. Per rispondere alla domanda: mi sembra che ci si prepari alla solita ferocia, ma spero di sbagliarmi. Tutti siamo d’accordo che siamo come in guerra e l’arte in guerra (cioè sempre nel passato) ha avuto un grande peso. Evidentemente sono cambiate molte cose e allora usiamo questo tempo lungo anche per rifletterci.

Flavio Favelli

https://flaviofavelli.com/

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