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Pensieri di un artista isolato. Giuseppe Leone

Giuseppe Leone nel suo atelier, maggio 2020 © Luigi Salierno Giuseppe Leone nel suo atelier, maggio 2020 © Luigi Salierno
Giuseppe Leone nel suo atelier, maggio 2020 © Luigi Salierno
Giuseppe Leone nel suo atelier, maggio 2020 © Luigi Salierno

Giuseppe Leone e le sue riflessioni di artista “recluso” al tempo del Coronavirus. Diari letterari tra confessioni e speranze, intimi e riflessivi

Non era mai successo. Nemmeno il coprifuoco della Guerra Mondiale era così rigido: tutti a casa, mattina, sera, notte. E non era mai successo che il rapporto, il contatto con l’”altro”, imprescindibile regola del vivere contemporaneo, diventasse il nostro peggior nemico. Ci voleva un pericolo invisibile, ancor più minaccioso proprio perché impalpabile, per costringerci a fare qualcosa che ormai non facciamo più: guardarci dentro. Vivere solo con noi stessi. Un riallineamento delle coscienze, che ci permette – o forse ci costringe – a rivedere certe cose con un’ottica diversa, più “pura”. Alcuni artisti italiani lo fanno con i lettori di ArtsLife: diari letterari tra confessioni e speranze, intimi e riflessivi, un ripensamento dell’arte come scelta di vita sociale. Ecco il contributo di Giuseppe Leone

Carte e scarti senza tempo. Covid-19

Quali sono i “pensieri di un artista isolato”… In un momento storico decisamente particolare l’isolamento diventa recupero di frammenti del passato; il virus ci ha “permesso” di guardare dentro di noi, facendoci girare la clessidra per rivivere il tempo trascorso. Nell’attesa di rigirarla nuovamente e guardare il futuro.
Così, nel mio studio di Buonalbergo, isolato nel Sannio, osservo le decine di cartelle che conservano scarti dei miei lavori, quelli che non ho mai avuto il coraggio di buttar via. Vecchi disegni, ricerche lasciate sospese, idee abortite, tra cui, lavori che volevano solo essere impaginati.

L’atelier di Giuseppe Leone, maggio 2020 © Luigi Salierno
L’atelier di Giuseppe Leone, maggio 2020 © Luigi Salierno

Mi è venuta voglia di guardare quei lavori incompiuti in questo tempo morto che il coronavirus ci ha imposto. Ho sempre concepito la mia arte come un racconto da contenere in uno spazio chiuso: il mio mondo è la superficie da dipingere, e tutto quello che faccio, peso, o dico, devo essere in grado di appenderlo al muro, in qualche modo, come archivio visivo per la memoria futura, come testimonianza del presente esperito. Ho iniziato a dipingere non per attitudine, ma per volontà, una fortissima volontà di fare pittura come atto di automedicazione. Dipingere leniva i miei tormenti e mi faceva star bene, perché esorcizzavo tutto me stesso nel rettangolo bianco offerto dal quadro.

Guardare oggi quei lavori, fresche intuizioni giovanili e non, con occhi diversi e con esperienza consumata, mi offre nuovi stimoli, così come recuperare sagome creando collages, assemblandole come mini istallazioni su carta. Con i lavori degli anni ’80 ’90, 2000, fino a quelli più recenti, riattivo un laboratorio della memoria per correggere una linea, coprire un colore ed impaginare frammenti di un passato vicino e lontano al tempo stesso. La mia opera non è mai un prodotto finito, dove il non-finito non va inteso nel senso michelangiolesco del termine, quanto, piuttosto, come un insieme di elementi che possono essere continuamente rielaborati. È come se seminassi una serie di indizi, di appunti che riprendo e che ritornano anche a distanza di molti anni. Essi hanno il potere di sfalsare confini spaziali e temporali precisi e di porsi come collante tra forme o stili diversi.

L’atelier di Giuseppe Leone, maggio 2020 © Luigi Salierno
L’atelier di Giuseppe Leone, maggio 2020 © Luigi Salierno

C’è, infatti, una sorta di panismo di fondo che si manifesta tanto nell’atto del fare quanto su un piano ontologico esistenziale dove la vita diventa un tutt’uno, un eterno ritorno: si è sempre giovane, si è sempre vecchio, c’è sempre qualcosa di nuovo, c’è sempre qualcosa di già adoperato; mentre la sabbia della clessidra scorre, aspettando di essere capovolta.
In fondo, parafrasando T. S. Eliot, “io cerco, cerco, cerco”, per poi rendermi conto che l’unica cosa che riuscirò a trovare è il desiderio di cercare ancora. È come per l’orizzonte: tutti noi sappiamo benissimo che non potremo raggiungere il luogo dove il cielo si fonde con la terra, eppure quel traguardo è l’unità di misura del nostro cammino nel mondo. È come per la felicità:

un giorno ti vide un uomo all’orizzonte,
volle rincorrerti, giunse la morte,
la linea celeste è ancora lontana.*

*frammento di una poesia scritta da Giuseppe Leone degli anni Sessanta

L’atelier di Giuseppe Leone, maggio 2020 © Luigi Salierno
L’atelier di Giuseppe Leone, maggio 2020 © Luigi Salierno

Chiudo questa pagina, questo “frammento”, con una riflessione: si parla di questa pandemia come di una guerra, ma guerra non è; in particolare, per ogni artista come me che, in questa quarantena forzata ha avuto tempo per riflettere, leggere, riguardare l’arte ed anche indagare dentro sé, si tratta di una occasiona di ‘rilettura’ per arricchire un immaginario in grado di dare nuova linfa alla propria arte futura e per porsi di fronte a quella clessidra che ho già menzionato…

Giuseppe Leone

https://twitter.com/giuseppeleone20

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