Tra le numerose attività di questa Fase due che hanno potuto finalmente riaprire al pubblico ci sono anche i musei. Non tutti hanno potuto e/o voluto farlo dal primo giorno di via libera (lo scorso 18 maggio): le restrizioni e le nuove regole d’accesso impediscono un ritorno alla normalità. Ogni istituzione si è dovuta così adattare ai necessari parametri governativi per garantire una fruizione sicura dei propri spazi e delle proprie opere. Ma non è solo il distanziamento sociale la sfida dei nostri musei, molti altri aspetti dovranno essere ripensati, ricalibrati, cambiati. Ne abbiamo parlato con Simone Verde, direttore del Complesso monumentale della Pilotta di Parma, riaperto meno di una settimana fa, il 3 giugno.
Com’è stato finalmente riaprire il museo al pubblico? Prime impressioni e feedback dalla ripartenza.
Rivedere le sale piene, restituite al loro significato grazie alla presenza gentile e attenta di un pubblico composto e affamato di contenuti è stato un bellissimo spettacolo che non mi aspettavo con questa intensità.
Come si può ripensare l’idea di accessibilità? Come cambierà il rapporto tra museo e fruitore? Come sono organizzate le “nuove” visite nel suo museo? Come saranno rimodulati gli spazi e il percorso espositivo?
Al momento la Pilotta è aperta solo negli spazi compatibili con le misure di sicurezza. Le sale sono punteggiate di segnaletica e presidi che il fatto di annoverare tra le nostre istituzioni interne il Museo Bodoniano ci ha permesso di concepire con uno stile grafico anch’esso parte del patrimonio culturale del Complesso.
Non credo che, finita la pandemia una volta sviluppato un vaccino, assisteremo a uno stravolgimento delle forme di fruizione e per questo – oltre i giusti dispositivi di sicurezza – non penso occorra fare investimenti che risulterebbero a medio termine una dissipazione di fondi. Ritengo che se un insegnamento va mantenuto di questa buia esperienza è che non siamo soli su questo pianeta e che le altre specie non possono essere pensate come strumenti materiali della nostra volontà di potenza. Dobbiamo pensare a una museologia, cioè, che al posto di esaltare in maniera acritica i supposti progressi degli uomini, spieghi al pubblico le codificazioni culturali come il risultato di processi storici problematici che includono anche precisi ecosistemi. Su questo tema stiamo lavorando assieme all’Ermitage di San Pietroburgo per un convegno internazionale per il 2021.
Prossime mostre in programma? Prossimi programmi della Galleria Nazionale di Parma?
Abbiamo riaperto con una mostra monumentale su Piero Fornasetti e il suo atelier che rimarrà aperta fino a febbraio 2021. Si tratta del tentativo di rigenerare nel presente il patrimonio classicista delle collezioni della Pilotta in dialogo con uno dei massimi esponenti dell’arte e del design italiano del Novecento.
Per il 2021 è prevista la più grande mostra mai organizzata sulla collezione Farnese, in sinergia con il Museo di Capodimonte a Napoli. Attorno a questo progetto, sviluppato con l’Università, la Fondazione Cariparma e l’ordine degli architetti di Parma, abbiamo raccolto sponsorship importantissime come quella dell’azienda Parmacotto.
Meno numeri, più valore. Meno quantità, più qualità. Radicalizzazione sul territorio e rapporto con la comunità di cui fanno parte. Come sarà il nuovo museo d’arte (sia in senso lato che in senso stretto della sua istituzione)?
I concetti di territorio e di comunità locale – all’epoca delle compagnie low cost – non hanno più molto senso. Le comunità non sono per fortuna più di terra né di sangue. Sono di idealità, in base a scelte identitarie sempre più liberamente agite a posteriori e non subite a priori.
Un museo vivo è, quindi, un centro di ricerca e di innovazione che riesce ad affezionare attorno a sé una comunità motivata dalla qualità e dalla specificità dei suoi settori di investimento. Quando questo paradigma vive, fa tendenza e arriva anche il pubblico di massa dei turisti.
L’utilizzo della comunicazione digitale e della condivisione di progetti online è stato cruciale, ma è parso altresì evidente che la fruizione fisica delle opere, degli ambienti, delle architetture non è in alcun modo sostituibile. Come possono essere integrate al meglio questi due livelli in modo che le specificità del digitale siano sfruttate come una ulteriore proposta museale?
Per fortuna è apparso evidente come fine ultimo di un museo sia la contemplazione reale delle opere nel loro spazio fisico. Si tratta, per noi operatori del settore, di una premessa e non di un corollario. Nella mia esperienza al Louvre di Abu Dhabi abbiamo lavorato molto sulle problematiche implicate dalla mediazione digitale, sul fatto che schermi luminosi con immagini in movimento distraggono inconsapevolmente l’occhio e impediscono la creazione di quel dialogo percettivo che caratterizza invece le modalità di fruizione pre-contemporanee. Una pala d’altare richiede una tensione totale per essere compresa e apprezzata. In essa, a pensarci bene, è supposto apparire Dio.
Come potrebbe sopravvivere alla potenza visiva di app, tablet e altri dispositivi che contraddicono alla mistica contemplazione che l’alterità di un’opera del passato implica? È necessaria dunque attenzione se vogliamo che i nostri musei siano luoghi di comprensione e non di fraintendimento culturale. Il che significa attribuire a ogni mezzo il suo luogo: in Pilotta, per esempio, abbiamo creato un tavolo interattivo in cui è possibile navigare nelle collezioni e accedere – grazie a immagini di alta definizione – a tutti i contenuti scientifici in maniera ludica e spettacolare. Esso si trova in una sala a parte, però, e non nello stesso spazio degli originali.
Il governo sembra un essersi un po’ dimenticato delle istituzioni e dei professionisti del mondo dell’arte nonché degli artisti. L’attenzione è sempre parsa più rivolta al mondo dello spettacolo. Lei ritiene che si sia fatto abbastanza per aiutare anche il complesso e variegato panorama museale e i relativi lavoratori?
Dalle voci che mi giungono stanno per essere stanziati fondi consistenti per i musei. È anche normale che si sia intervenuto innanzitutto a difesa dei lavoratori dello spettacolo perché lì erano in gioco esistenze di persone che già vivono nella precarietà. Quello che serve ai musei, tuttavia, è maggiore personale, più flessibilità nella modulazione dei servizi e degli orari di apertura. Più custodi, più investimenti in acquisizioni e ricerca, e forme più specialistiche di formazione professionale.