Euphoria, Dietland e Atelier: body positivity e la cultura visuale nel mondo delle serie TV. È necessaria la bellezza? E quali necessità ha la bellezza?
È necessaria la bellezza? E quali necessità ha la bellezza? Il tempo di contagio globale che stiamo attraversando ha spinto a chiedersi sempre più quali siano le priorità, di cosa possiamo o dobbiamo imparare a fare a meno, quale sia l’orpello che rende unica la nostra vita e di cui dovremmo sbarazzarci, per dirla con Maffesoli. Cosa siamo di superfluo nei nostri corpi è la riflessione che prende spunto da tre serie TV incentrate sulla celebrazione del corpo, sulla cultura visuale e sulla body positivity.
Euphoria (HBO) è una serie che propone modelli alternativi di fisicità che esplicitano la voglia di piacersi e di godere e fa sfoggio di glitter e trucchi ovattati dalle atmosfere anni ’80. Se le immagini sono plurime dal punto di vista dei corpi coinvolti, il loro fascino è trascinante e davvero cool alla stessa maniera. Il make-up ispirato a Euphoria è stato anche omaggiato da una nota YouTuber – Gloria Fair – che nel bel mezzo del lockdown è riuscita a non dormire quasi per 24 ore di fila e a truccarsi di glitter e colori fucsia/blu in preda a un delirio da serie TV.
La serie esplode di drama adolescenziale dalle tinte sessuali e tossiche, droga e rapporti familiari malsani. Ma non è assolutamente Christiane F. – Noi I Ragazzi dello Zoo di Berlino. La costruzione della patina visiva naviga bene tra seduzione del corrotto e ribellione della verità, adolescenti esperti di vita e adulti ignari, pietosi, marginali. La vita in Euphoria è bella da vedere, non produce una sensazione di “schifo” nel mostrare la proibizione e i protagonisti della trasgressione.
La sessualità etero, occasionale così come stabile, si perpetra a livello principalmente anale. Dal punto di vista visivo coglie la richiesta di soddisfare il piacere maschile come quando una delle protagoniste, Maddie, osserva e ripete le posizioni sessuali ‘giuste’ attraverso filmati porno. Rivendicazione del piacere, ricerca attiva del piacere, sono visibili nella protagonista/attivista body-positive (Barbie Ferreira) nel suo rapporto con la webcam e con chi è disposto a pagare per vederla nuda.
Un piacere che non è sempre fisico, è il piacere di piacere. Le relazioni indirette tra corpo e potere non sono sempre ben descritte come è evidente nel racconto del revenge porn, trattato come un passaggio che lascia tutto sommato indenne la vittima e si ripercuote su chi – da maschio – si ritroverà a rapportarsi con quest’ultima.
La mascolinità alternativa emerge con i suoi conflitti misogini e irrisolti che, ancora una volta, non riescono a distaccare lo sguardo della spettatrice dalla passione travolgente dell’“amore” violento e tormentato. È il caso di Nate, frustrato, psicopatico, violento, “bono”, nato in una famiglia conservatrice e con un padre pedofilo. Il suo rapporto con la fidanzata Maddie sembra edulcorare gli aspetti più aggressivi, gli schiaffi veri, mentre regala una visione realistica di quanto si incardini in una dinamica di coppia – non disagio individuale – la violenza di genere.
Dietland (Amazon Prime) si focalizza esplicitamente sui corpi non conformi, rende la questione della corporeità un soggetto della sceneggiatura e non uno strumento, si concentra sulla coercizione alla bellezza, sulla ‘scopabilità’, per esistere. E per lavorare.
La protagonista Prugna, da grassa, aspira a lavorare nel campo che teoricamente le dovrebbe essere più ostile: le riviste di moda. Ma con un compito ben preciso: rispondere alle lettere inviate alla direttrice, Kitty (Julianna Margulies), da parte di lettrici che parlano di disturbi alimentari, ossessioni autolesioniste, etc.
Prugna, grassa, affronta le aspettative di chi accetta un appuntamento con lei: pervertiti, alla ricerca di ‘fenomeni nuovi’, delusi. Qui emerge una testualità intra- e inter-locutoria comune sia a Euphoria che a Dietland. La protagonista si prende come partecipe alla sua vita e alla nostra, ci invita, ci chiama in causa direttamente.
Prugna viene coinvolta in una sorta di operazione sabotaggio interna alla rivista per mettere a nudo le discriminazioni che coltiva.
La serie immagina un contro-eroe, potenzialmente popolare ma sospetto, che agisce la violenza come fossimo davvero in guerra. Una guerra fatta di pistole-immagini e campi di battaglia negli occhi di tutte. Si tratta della formazione terroristica ‘femminista’ di ‘Jennifer’, il cui obiettivo sembra costringere le riviste a mettere in copertina corpi di uomini nudi, invece che di donne. In una sorta di revenge-gender dello stereotipo del corpo-unico, in cui il genere femminile non sia costantemente sotto attacco di perfezionatori di incarnato e di forma fisica. Notevole la fotografia/grafica di Dietland in cui diverse inquadrature riescono a rendere visibile la posizione nel mondo di una persona in sovrappeso.
Prugna non è il personaggio body-positive attivista, ma vuole entrare a far parte del mondo della magrezza. Perché questo mondo pare aprire le porte della cittadinanza: non vuole più lavorare da casa, non apparire con il suo nome sulla rivista, sic! L’antibellezza viene fatta equivalere al terrorismo. Il terrorismo di ‘Jennifer’ che mira ad uccidere il maschilismo degli uomini e delle donne, come nel caso del femminicidio della pornostar e imprenditrice Stella Cross.
Il terrorismo delle organizzazioni femministe che includono nel loro programma di fuoriuscita dalla violenza di genere la visita in una stanza-installazione con un campione dei filmati più cliccati sui vari porn-hub globali in diretta. La pornografia, maschile, non può esistere senza esercizio di violenza sulle donne. E questo appare come un rito catartico per scegliere da che parte stare per una vittima di violenza domestica, per rendersi conto di quanto essa sia un corpo a servizio altrui.
Stupendo, inoltre, l’iter di trasformazione dell’ex-dipendente della Austin, azienda di publishing di moda per cui lavorava Prugna: senza parrucca, quasi in slow-motion, rivela i capelli corti e ricci da donna nera, senza fondotinta rivela la pelle scura, senza sopracciglia, senza bustini rivela una taglia over 44, senza seno per una doppia mastectomia rivela ‘il corpo del reato’… ‘Vuoi vedere una magia …? Chiede a Prugna mentre si mostra nell’atto di spogliarsi.
Atelier (Netflix) parla con la luce di corpi, bellezza, ambienti. La fotografia risulta sovraesposta e senza contrasti, sembra non esserci grado di separazione tra le figure umane che si stagliano e le inquadrature grandangolari di ambienti sempre luminosi, raramente notturni. La recitazione è peculiare, con espressioni manga e dialoghi sempre accennati.
Perché la bellezza? Perché piacere…? La storia dell’umanità è stata scritta dalla bellezza, secondo la proprietaria dell’atelier in cui lavora Mayu, la protagonista della serie.
La lingerie è a contatto con la pelle intima: perché, dunque, deve essere bella? Processi creativi e processi dissolutivi si accavallano senza risolvere il dubbio se distruggere nella moda equivalga a ribellione.
La bellezza è un’arma. La lingerie è per se stesse. In Giappone l’abito fa il monaco e l’apparenza estetica definisce categorie molto nette nella società. La lingerie non viene mai sessualizzata o resa oggetto voyeuristico. Il plot è centrato sul lato professionale della azienda artigianale Emotion e non ci sono love-stories di contorno. L’approccio al consumo della piccola impresa artigianale di moda viene messo a confronto con quello delle grandi aziende: non è “Se compri questo, starai bene”, bensì “Noi faremo in modo di coniugare ogni singolo prodotto alla tua persona”.
La lingerie può nascondere l’intimo, bloccare la creatività, aumentare l’inautentico. Non tutto quello che aderisce alla pelle è ‘proprio’ … Mayu inizia a dialogare con il suo corpo, la sua sessualità, i suoi sentimenti, quando arriva a voler creare lei stessa la sua lingerie (nono episodio).
Nel penultimo episodio emerge come la lingerie non si esibisca e per questo darebbe libertà alle donne. Libertà di non dover dimostrare ogni volta di essere all’altezza della bellezza. La lingerie non è l’abbigliamento, molto più a contatto con l’esteriorità della società. Cosa indossano le donne? Le opere d’arte, la perfezione, ciò che è sexy? Cosa le fa sentire a proprio agio con se stesse? Atelier mostra uno spaccato di questo tormento, una occasione di riflessione sull’eleganza e su quanto questa dovrebbe appartenere alla lingerie. Produrre intimo avrebbe a che fare con la moda o più con la comodità?
Mayu e la sua datrice di lavoro sono agli antipodi sulla risposta proprio perché quest’ultima non vede scissione possibile fra indossare un capo e la ricerca della bellezza, mentre Mayu non ritrova quell’intimità agile e sicura che dovrebbe provare con l’intimo della Emotion addosso. La dimensione di classe c’è, anche se viene intellettualizzata e romanzata.
Forse è proprio il senso della bellezza da scoprire, o da nascondere per non sembrare artificiali, il vero punto problematico. Ma di sicuro, ci si può curare, educare, invecchiare, restando nella sensazione dell’eccezionalità. Il pensiero del bellissimo è ineliminabile.