La sede newyorkese di Gagosian riapre i battenti con Elpis, la personale dedicata alle nuove opere di Jenny Saville. In mostra fino al 12 dicembre 2020.
Dopo la chiusura forzata dello scorso marzo, Gagosian torna con una dichiarazione di speranza. Speranza che, nel mondo greco, trova la propria personificazione nel termine Elpis, usato con molta frequenza da Esiodo quando, ne “Le opere e i giorni”, racconta di come proprio la speranza sia l’unica cosa a restare sul fondo del vaso aperto da Pandora.
Un tema -oggi più attuale che mai- che Jenny Saville reinterpreta tramite dipinti colossali, attraversati da masse sensuali e pennellate materiche. Centrale, come sempre nella sua pratica, è l’esplorazione del corpo umano, rappresentato in frammenti a metà tra sogno e realtà.
Ed ecco che la dimensione mitologica che avvolge i grandiosi soggetti ritratti entra in collisione con la cruda realtà con cui questi sono rappresentati. Saville presenta allo spettatore anatomie ingigantite, come come fossero poste sotto una lente di ingrandimento. Lo sguardo è chiamato a compiere un’analisi ravvicinata, un’osservazione minuziosa di ogni dettaglio.
Corpi e visi sono scomposti e ricomposti affinché ogni singola parte possa essere osservata nella sua specificità. Ma non solo. Gli occhi e la bocca della donna ritratta in Virtual (opera presentata nella prima edizione del format Spotlight) ci guardano dalle stesse finestre galleggianti che ormai siamo soliti vedere sui nostri computer. Un cubismo picassiano riletto in chiave virtuale.
Le opere in mostra traggono ispirazione dalla vita contemporanea così come da un linguaggio primordiale che affonda le sue radici nella storia degli uomini. Tra le sue fonti di ispirazione più durevoli, l’antichità rappresenta per l’artista un metro di confronto imprescindibile sia dal punto di vista tecnico che ideologico. E se gli effetti luminosi creati dalla sovrapposizione progressiva delle ricche pennellate di colori rimandano al riflettersi dei mosaici bizantini, l’uso dell’oro è una diretta citazione del mondo greco ed egiziano, in cui questo era considerato segno della presenza divina negli esseri umani.
Non mancano poi i riferimenti alla storia dell’arte occidentale, tra un chiaroscuro barocco e un uso impressionista della luce, reso ancora più realistico dall’utilizzo di pastelli acquistati nel negozio parigino dove era solito fare rifornimento Degas.
In questo gioco di rimandi e citazioni, un ruolo di primo piano spetta anche all’arte dell’artista indigena Emily Kame Kngwarreye, con cui Jenny Saville è entrata in contatto durante un soggiorno in Australia e da cui ha tratto la vitalità cromatica dei suoi nuovi lavori.