La lettura della “Power 100” stilata per il 2020 dalla rivista ArtReview innesca riflessioni non più rimandabili. Qual è il ruolo dell’arte oggi? In cosa si distingue dalla filosofia, o dalla letteratura?
È evidente a tutti come questo disgraziato anno 2020, dal Time bollato sulla sua copertina di dicembre come “il peggiore anno di sempre”, esuli da qualsiasi riflessione sociologica di carattere generale, ancor più se comparativa. L’impatto del Coronavirus e delle conseguenti misure di contenimento è stato – ed è tuttora – tale da sconvolgere pressoché tutte le categorie della società, dalla produzione alla comunicazione, dai rapporti interpersonali alla famiglia, dagli sport alla cultura. All’arte.
Questo non significa che il mondo si sia fermato: e anzi, certe “liturgie” tipiche della fine anno vanno in porto, certo adeguandosi alle contingenze. Il 7 dicembre – per esempio – Milano non si è voluta privare a Sant’Ambrogio della tradizionale Prima della Scala, con uno spettacolo che se è riuscito a portare il melodramma a un pubblico mai così ampio, grazie alla diretta di Rai1, non ha certo entusiasmati gli osservatori più puristi.
Per il mondo dell’arte, fra queste liturgie decembrine c’è senza dubbio la seguitissima “Power 100”, “The annual ranking of the most influential people in art”, come viene definita dalla rivista che la promuove da una ventina d’anni, ArtReview. Una lista che, nell’unilateralissimo giudizio dei giornalisti inglesi, mette in fila le cento personalità più influenti dell’artworld. Normalmente un elenco molto personalizzato: dal gallerista all’artista, al collezionista, al direttore di museo, al critico del momento.
La consultazione della Power list del 2020, diffusa in questi giorni, stimola diversi piani di riflessione. Ed è tutto sommato un bene, data la piattezza diffusa in un ambiente annichilito dalle forzate chiusure pandemiche. Intanto: la sostanziale inattività osservata per quasi tutto l’anno determina che al fianco – anzi, prima, come vedremo – delle singole personalità, come si diceva impossibilitate a mettersi in evidenza, vengano valutate quelle che definiremo “fattispecie sociali”. Movimenti, correnti di pensiero, fenomeni cresciuti nella comunicazione. E piattaforme, intese come spazi più virtuali che fisici che si fanno fulcro di dibattiti, riflessioni, nuovi approcci alla contemporaneità.
E il primo tema interessante arriva qui, prima ancora di entrare nel merito: ma proprio nel metodo. Che troviamo plasticamente sintetizzato in un elenco assolutamente di parte, che per molti giustamente potrebbe lasciare il tempo che trova. Ma che è una descrizione abbastanza fedele di una realtà che sta sotto gli occhi di tutti coloro che negli ultimi anni seguono da vicino le dinamiche della contemporaneità. Ovvero la diffusa deroga, nella ricerca “artistica”, al dato “visuale” del prodotto di tale ricerca. Perché mai – e cominciamo a entrare nel merito – un movimento come “Black Lives Matter” dovrebbe stare al primo posto di una classifica dei soggetti più potenti nel mondo dell’arte?
Questa è solo l’ennesima conferma di una deriva relativistica ormai palese nelle nuove dinamiche creative. Il progressivo scollamento di ciò che si ricomprende nell’”arte contemporanea” da qualsivoglia “prodotto” di questa attività. Che non sia pensiero. Mentre scrivevamo queste brevi note, la questione “Power 100” 2020 veniva affrontata, con toni non troppo distanti, anche da Luca Beatrice con un articolo su Il Giornale. “Non sono tra i sostenitori di un’arte formale”, scrive fra l’altro il critico torinese, “il primo scopo della cultura è provocare fratture, mettere in crisi l’esistente attraverso una riflessione poetica individuale”.
Sulla prima parte non possiamo non concordare. Da quando Kandinsky, forse il maggiore teorico delle avanguardie, scriveva “Punto, linea, superficie”, bibbia del formalismo, è passato quasi un secolo. E dopo le sue teorizzazioni sugli elementi fondamentali della forma, i suoi sforzi per fondare una scienza dell’arte, abbiamo metabolizzato non diciamo Duchamp, ma poi Beuys, Warhol, Kawara, fino a Hirst e Cattelan. Ma – rischiamo di banalizzare, ma accettiamo il rischio – si era comunque in presenza di un “prodotto artistico”. Che fosse un oggetto, una scultura, un video, un libro d’artista, una performance.
Beatrice sostiene che “il primo scopo della cultura è provocare fratture”: d’accordo, ma in materia di “arte visiva” questo cosa significa? Ovvero: come assegnare le teorie del Black Lives Matter a quello che ci ostiniamo a chiamare “mondo dell’arte”? E non alla filosofia, alla letteratura, alla ricerca sociologica? Oppure ormai queste categorie sono irrimediabilmente obsolete, e dobbiamo rassegnarci ad un indistinto melting pot creativo?
Entrando nel merito di questa lista, entra in scena una precisa temperie, questa sottolineata anche con veemenza da Luca Beatrice. Ovvero la political correctness a cui si ascrivono le scelte di ArtReview, che delinea un sottofondo ideologico in riflessioni fin qui meramente metodologiche. Ma anche in questo caso, fotografano fedelmente certi trend facilmente riscontrabili nelle cronache artistiche. “Nella devastante ondata di correttezza politica che sta togliendo ogni brivido all’arte (che deve essere invece cattiva e trasgressiva)”, recita l’articolo citato, “seguono a ruota due accademiche impegnate nella decolonizzazione dei musei occidentali, l’attivismo di #metoo (peraltro già vecchiotto), la teorica del genderism, i collettivi impegnati in politica”.
Al primo posto assegnato al BLM, segue nella lista il collettivo indonesiano ruangrupa, che – stando allo statement – svilupperà la Documenta Kassel che curerà nel 2022 in una fabbrica dove si produrranno mascherine chirurgiche. Terzo posto per due studiosi, Felwine Sarr e Bénédicte Savoy, distintisi nell’impegno nelle restituzioni di opere d’arte depredate da paesi colonialisti. Al quarto posto il movimento #metoo, che non abbisogna di dettagli. Al quinto il poeta Fred Moten e al sesto l’artista (per quel che possa ancora significare la qualifica, alla luce delle riflessioni offerte) Arthur Jafa, entrambi campioni della black culture.
La Top Ten si chiude con Judith Butler, “Academic – Preeminent American gender theorist”. Razzismo, terzomondismo, post colonialismo, femminismo, gender: c’è tutto l’armamentario delle emergenze contemporanee. Ma non c’è (se non i bellissimi video di Jafa, peraltro premiati alla Biennale di Venezia) un prodotto tangibile di tanto pensiero. E quei piccoli barlumi della “scienza dell’arte” kandiskyana svaniscono, in dissolvenza…
Massimo Mattioli
https://artreview.com/power-100/
https://artslife.com/category/rubriche/lezioni-darte-contemporanea/