Game of the Year, il documentario che racconta l’universo dei videogiochi: “cosa serve oggi per far riconoscere il videogioco al pari di forme espressive come il teatro o il cinema?”
Lo scorso 8 dicembre è stato pubblicato su YouTube il trailer ufficiale di “Game of the Year”, il nuovo film Alessandro Redaelli in uscita nel 2021. Dopo “Funeralopolis”, documentario in bianco e nero ambientato nella periferia milanese di Bresso che racconta la vita di due amici, tra passione per la musica e tossicodipendenza, Redaelli sceglie oggi di raccontare l’universo dei videogiochi, ambiente spesso marginalizzato (soprattutto in Italia) ma che, per fatturato e qualità artistica, non ha nulla da invidiare ad altre forme espressive. A suo fianco, come in “Funeralopolis”, ci sono Ruggero Melis e Daniele Fagone che di “Game of the Year” hanno firmato insieme a Redaelli sceneggiatura e montaggio (in più Fagone si è alternato a Redaelli alle riprese, mentre Melis ha firmato la colonna sonora, così come in “Funeralopolis”).
“Game of the Year” racconta non tanto i videogame, quanto la vita di dieci persone che di questa “forma d’arte” – così non esita a definirla il regista – ne hanno fatto un lavoro, con la speranza di avvicinare un mondo che molti vedono ancora come alieno. Abbiamo fatto qualche domanda ad Alessandro, Ruggero e Daniele.
Il primo quesito di attualità. La Warner Bros ha recentemente dichiarato che tutti i suoi film in uscita in sala nel 2021 verranno rilasciati contemporaneamente anche sulla piattaforma streaming di sua proprietà, HBO Max. Ritenete che politiche distributive di questo genere porteranno alla scomparsa delle sale cinematografiche?
A.R: La questione va presa da due punti di vista diversi: dal lato degli spettatori e dal lato dei mestieranti. Da spettatore, sinceramente, sono combattuto: è innegabile che la sala sia un passo avanti rispetto a tutto come esperienza cinematografica, però ammetto anche che, se devo contare le volte che vado in sala in un anno e le volte che guardo un film a casa, queste vincono nettamente. Dal lato dei mestieranti io non so dire cosa succederà. Netflix ha avuto un merito, ovvero quello di ridare linfa alle produzioni a medio budget, che erano scomparse dalle sale per la loro difficoltà a rientrare nei costi. Una cosa certa è che i multisala spariranno, ma di questo non mi dispiaccio particolarmente. Penso invece che sopravvivranno le sale di nicchia, quelle che possono vantare un pubblico selezionato.
R.M: Dipende dal film. Chi sarebbe andato a vederlo al cinema in condizioni normali, secondo me, andrà comunque in sala. In ogni caso, un modello distributivo come quello annunciato dalla Warner avrebbe prima o poi preso il sopravvento, con o senza la pandemia. Un futuro plausibile, riguardo al quale ho sentito molte opinioni, potrebbe consistere nel ritorno alle sale di proprietà dello Studio, con lo streaming a fare da servizio complementare.
D.F: Sarebbe un ritorno alle origini, quando gli Studios possedevano le sale in cui proiettavano i propri film, prima che le leggi antitrust lo impedissero.
Avete realizzato insieme anche “Funeralopolis”. Come è nata la vostra collaborazione?
A.R: Ci siamo conosciuti alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti, a Milano, ormai 8 anni fa. Prima di “Funeralopolis” abbiamo realizzato alcune piccole produzioni con cui ci siamo fatti le ossa. Dopo aver iniziato a girare “Funeralopolis” per conto mio, come tesi della Civica Scuola di Cinema, decisi di coinvolgere anche Ruggero e Daniele, con cui ho lavorato al montaggio e alla sceneggiatura a posteriori. Successivamente abbiamo iniziato a scrivere qualche soggetto nuovo. A quel punto mi è riaffiorato un desiderio, ovvero quello di fare un film che avesse a che fare con i videogiochi, visto che tutti e tre siamo appassionati. Abbiamo quindi iniziato a girare fiere e convention sparse per l’Italia, alla ricerca di personaggi da indagare. Dopo aver scelto le venti storie più interessanti tra le cento e più che avevamo raccolto, ci siamo rivolti alla Withstand Film, che ha accettato di produrre il film.
R.M: Poi abbiamo iniziato a filmare i personaggi che avevamo scelto, e, in pratica, la troupe era composta da noi tre.
A.R: Un retroscena interessante è che in realtà, prima di partire con la Withstand, avevamo fatto una prova con la K48, la casa di produzione che aveva firmato “Funeralopolis”. La troupe era composta da quindici elementi e prevedeva un’infrastruttura tipica di produzioni di un certo livello: alla fine dell’unica giornata di riprese ci siamo però resi conto che così non funzionava. I tempi, in un contesto del genere, si dilatano moltissimo, e l’estetica, per quanto importante in un prodotto come il nostro, non poteva essere messa al di sopra di tutto.
D.F: Tra l’altro, tutto il film è stato realizzato dopo esserci posti in partenza dei paletti piuttosto “scomodi”: mentre “Funeralopolis” era stato girato tutto a mano, e quindi con un’estrema rapidità di impostazione e di interazione con la scena, in questo caso la scelta è stata di lavorare solo con inquadrature a cavalletto, quindi fisse.
Quali canali di distribuzione sfrutterete per questo film? Pensate di proporlo a qualche Festival?
A.R: Inizialmente si pensava a una strada simile a quella percorsa da “Funeralopolis”, ovvero un passaggio da uno o più festival, poi l’uscita in sala da indipendenti e successivamente la ricerca di un distributore. Nella situazione in cui ci troviamo oggi la prima idea che ci è venuta in mente è quella delle piattaforme streaming, con cui abbiamo già preso contatto.
R.M: Il Covid ha naturalmente avuto un impatto sul panorama cinematografico e anche su di noi, nel nostro piccolo. Il fatto di non passare dai festival cambia infatti non poco le carte in tavola per quanto ci riguarda: tra mandare una mail con le informazioni del film e incontrare fisicamente i distributori ai festival, davanti a un caffè, c’è moltissima differenza, è un altro modo di interfacciarsi.
Come sarà la colonna sonora?
R.M: Per “Funeralopolis” la scelta della colonna sonora era stata fatta a film finito, con l’inserimento di una manciata di brani originali. Per “Game of the Year” abbiamo invece pianificato fin da subito l’impostazione della colonna sonora, che volevamo rispecchiasse le scelte stilistiche a livello di regia: abbiamo cercato un certo “classicismo”, che richiamasse un mondo non immediatamente associabile a quello dei videogiochi. In generale volevamo creare una disconnessione tra il mondo ipermoderno del videogioco e un’impostazione classica del racconto.
Per quanto riguarda il montaggio, quali sono state le vostre scelte? Quale sarà il ritmo della narrazione?
A.R: Il processo, anche in questo caso, è stato molto più complesso che in “Funeralopolis”. In primo luogo per la limitazione del cavalletto, che ha reso più difficile legare le inquadrature. L’altro problema è stato evitare che il film durasse troppo: da venti linee narrative siamo dovuti passare a dieci. Ci è voluto un anno solo per completare questo processo di selezione, a tratti piuttosto doloroso.
D.F: Bisogna ricordarsi che ci sono due grandi difficoltà in un progetto del genere. La prima è la coralità: un conto è seguire la vita di uno o due personaggi. Quando inizi a incrociare dieci linee di racconto, mantenere l’attenzione dello spettatore diventa complesso. Oltre a questo, il documentario d’osservazione prevede che tu non intervenga mai su quello che avviene di fronte alla telecamera. Questo comporta che lo sviluppo dei personaggi, e quindi della storia, sia imprevedibile.
R.M: È come giocare d’azzardo. Devi gestire risorse fisiche ed economiche per seguire situazioni di cui non puoi prevedere lo svolgimento. Può capitare che le cose vadano talmente male che una data storia non possa essere nemmeno utilizzata nel film. In ogni caso non sono mai energie sprecate, in quanto hai assorbito qualcosa in più della realtà che stai cercando di raccontare.
Cosa vorreste ottenere con questo film? Forse una maggiore consapevolezza da parte del pubblico italiano rispetto al mondo del gaming?
A.R: Ti racconto una cosa: la mia idea iniziale era di fare un prodotto didascalico, che istruisse il pubblico sulla storia dei videogiochi. Successivamente però è subentrato un discorso quasi etico, che ci ha fatto chiedere: ‘cosa serve oggi per far riconoscere il videogioco alle persone al pari di forme espressive come il teatro o il cinema’? Abbiamo quindi pensato se non valesse la pena di fare un film che raccontasse non i videogiochi in sé, ma la vita di dieci persone che ne hanno fatto un lavoro.
D.F: Significa raccontare l’umanità che sta dietro a questi mestieri.
R.M: È capitato, in particolare alle fiere, che intervistassimo i visitatori. Una cosa che ci ha colpito sono state le parole di molti di loro. Nonostante infatti si trovassero a una fiera di videogames, in alcuni casi anche travestiti dai loro personaggi preferiti, molti sembravano voler minimizzare la loro passione verso l’universo videoludico, quasi se ne vergognassero.
Credete che il videogame possa svolgere una funzione social oltre che ludica?
A.R: Secondo me i videogiochi hanno la stessa identica funzione che ha il cinema, ovvero quella di raccontare qualcosa attraverso un prodotto di intrattenimento. Puoi cambiare il modo di vedere alcune “sfumature” del mondo. Bisogna far capire alle persone che i videogiochi non sono solo quelli noti al grande pubblico, come Fornite e Call of Duty.
D.F: Il videogioco è un linguaggio, e come linguaggio lo puoi usare in mille modi. Puoi usarlo per intrattenere, ma al tempo stesso per approfondire alcune tematiche.
A.R: C’è un personaggio nel film che dice: “Il videogioco è un mezzo molto potente, e in quanto tale abbiamo il dovere morale di dire qualcosa”.