Il Museo, come lo concepiamo oggi, è un’invenzione piuttosto recente, se si considera che uno dei primi esempi di realtà museale è costituto dai Musei Capitolini, aperti al pubblico durante il pontificato di Clemente XII, nel 1734. Quale può essere oggi, a quasi tre secoli di distanza, il futuro di questa istituzione, alla luce delle prolungate chiusure messe in atto dai governi di tutto in mondo in risposta al dilagare della pandemia?
Sulla situazione critica attraversata dai musei di tutto il mondo diverse organizzazioni si sono attivate per stilare report che approfondiscano nel dettaglio la condizione di queste istituzioni. Tra le più prestigiose, UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization), che ha analizzato dati raccolti tra il 16 aprile e il 20 maggio 2020, e ICOM (International Council of Museums), che invece ha preso in esame, in un primo report, dati raccolti tra il 7 aprile e il 7 maggio 2020, e, nel successivo aggiornamento, informazioni acquisite tra il 7 settembre e il 18 ottobre scorsi.
IL DIGITALE COME RISPOSTA ALLA CRISI
Il dato più interessante messo in evidenza sia da UNESCO che da ICOM è quello della crescente importanza della presenza online dei musei. In assenza di qualsiasi tipo di esperienza “reale” del museo, l’attività sui social, così come altre forme di interazione con il pubblico che non presuppongano la presenza fisica dei visitatori (tour virtuali, podcast, eventi in live streaming), rimaneinfatti l’unica possibilità per le realtà museali di non scomparire completamente e quindi di restare connesse con il proprio pubblico, pur vedendo le proprie entrate precipitare pericolosamente.
Tuttavia, come fa notare l’UNESCO nel proprio rapporto, la possibilità di usufruire dei contenuti pubblicati online da un museo non è concessa a tutti, ed è anzi distribuita nel mondo in modo non equo. Questo si riscontra in primo luogo guardando i dati sull’accesso alla connessione internet nel mondo: come mostra l’International Telecommunication Union, infatti, circa metà della popolazione mondiale non dispone di tale privilegio. L’UNESCO sottolinea inoltre l’esistenza, nella fruizione di tecnologie digitali, di un notevole gender gap: secondo l’OECD (Organization for Economic Co-operation and Development), sono infatti circa 327 milioni in meno, rispetto agli uomini, le donne che dispongono di un accesso mobile a internet.
Il report UNESCO asserisce che la risposta alla pandemia, nel passaggio da una presenza fisica ad una digitale, sia stata notevolmente più pronta da parte di quei musei che avevano iniziato a investire tempo e risorse nello sviluppo di tecnologie digitali prima dell’inizio della pandemia, portando in alcuni casi a un semplice incremento delle attività già intraprese, in altri al lancio di nuove forme di coinvolgimento digitale del pubblico.
In secondo luogo, il report UNESCO sottolinea come la distribuzione di istituzioni museali nel mondo non sia affatto omogenea: evidenzia che, dei 95.000 musei che l’organizzazione stima esistano nel mondo, quasi due terzi, il 65%, si concentri tra Europa Occidentale e America del Nord, mentre Africa e Medio Oriente ne ospiterebbero, rispettivamente, solo lo 0,9% e lo 0,5%.
Al di là delle disparità geografiche, viene esposto un altro dato che ben illustra la situazione tragica in cui versano i musei in questo momento: dei 95.000 istituti che si stima esistano nel mondo, 85.000 hanno temporaneamente chiuso nei mesi di maggio-aprile per via delle misure anti-Covid. In particolare, i musei che vivono dei proventi dei biglietti e del merchandising sembrano essere i più colpiti, in quanto questo genere di introiti può contare dal 5% al 100% del loro fatturato. Per le economie più turistiche, NEMO (Network of EuropeanMuseumOrganisations) stima che le perdite ammontino fino al 75-80% del fatturato, fino a spingersi a cifre comprese fra i €100.000 e i €600.000 a settimana nei casi più eclatanti.
IL SETTORE MUSEALE: FRAGILITÀ DI UN SISTEMA
Anche i due report firmati da ICOM concentrano la loro attenzione sulla transizione digitale intrapresa dai musei di tutto il mondo in risposta alle restrizioni richieste dalla pandemia, mostrando come le attività di comunicazione digitale (social, ma anche di condivisione online della propria collezione) siano aumentate, o intraprese ora per la prima volta,in quasi il 50% dei musei presi in considerazione. Tuttavia, l’attenzione dedicata dai musei al digitale, come sostiene ICOM nel suo report di ottobre, è ancora insufficiente: quasi un museo su cinque (il 19,7%) non investe più dell’1% del proprio budget in comunicazione e attività digitali. Analizzando le forze messe a disposizione della comunicazione digitale, ICOM evidenza un forte divario tra aree sviluppate, come Europa e Nord America, e in via di sviluppo, come Africa e Medio Oriente. Un dato: mentre il 30% dei musei europei dispone di personale dedicato alle attività digitali, la percentuale scende al 10% per quelli africani.
Tuttavia, i due report mettono in luce anche un altro aspetto, ovvero la fragilità del settore museale, soprattutto dal punto di vista delle professionalità coinvolte. La categoria più esposta sembra essere quella dei freelance: ad aprile, il 16,1% degli intervistati dichiara di essere stato temporaneamente congedato, mentre ben il 22,6% ha visto il proprio contratto non rinnovato.
Un dato allarmante che emerge dal report stilato da ICOM nella primavera scorsa riguarda le conseguenze, in termine di intensità di attività, che i musei hanno subito a causa della pandemia: interrogati sulle possibili ripercussioni economiche della crisi dovuta al COVID-19 sul settore museale, l’82,6% degli intervistati ha previsto una riduzione delle attività, il 29,8% un taglio del personale, mentre il 12,8% ha espresso il timore di una chiusura permanente della propria istituzione. Anche in questo caso il dato si aggrava in quei territoriin cui i musei sono pochi e piuttosto recenti, come l’Africa, l’Asia e il Medio Oriente.
Le forti difficoltà economiche valgono, sottolinea ICOM, non soltanto per le realtà che più dipendono da sovvenzioni pubbliche, ma anche, e soprattutto, per quelle che basano la propria stabilità economica su fondi privati, o soltanto sugli incassi delle vendite dei biglietti d’ingresso, quest’ultima la categoria più colpita, vista la totale assenza di visitatori, in particolare dall’estero, ma molto spesso dall’Italia stessa, per via dei vari lockdown degli ultimi mesi.
La situazione sembra migliorare nell’aggiornamento pubblicato da ICOM a ottobre scorso, in quanto la percentuale di intervistati che ritiene che il proprio museo sia destinato a chiudere permanentemente crolla dal 12,8% al 6,1%, mentre il 50% pensa che l’orario di apertura dovrà subire delle limitazioni, una volta che le restrizioni saranno venute a mancare.
Inoltre, l’80% degli intervistati indica a ottobre cheparte dello staff dei musei, che era stato lasciato a casa nei mesi precedenti, è tornato a lavorare “in presenza”. Questo riguarda soprattutto aree come Europa e Asia, mentre altrove le percentuali sono più basse (America Latina e Caraibi, in particolare).Tuttavia, se si tiene conto che i dati sono stati raccolti tra settembre e ottobre 2020, prima che una nuova serie di lockdown venisse messa in atto per contrastare la seconda ondata di contagi, ci si rende conto che questo genere di miglioramento della percezione degli intervistati sia stata probabilmente solo temporaneo.
Ciò che però emerge, in ogni caso, è la necessità da parte dei governi di fornire sostegno a un settore che, come altri, ma forse più di altri, rischia di non poter garantire la propria sopravvivenza in totale assenza di visitatori.
Una considerazione finale può essere quella espressa nel secondo report ICOM, riguardante il futuro che verrà riservato alle strutture museali, indipendentemente dalla presenza della pandemia, ovvero il digitale: “Di sicuro la crisi dovuta al COVID-19 ha cambiato per sempre la percezione dei musei nei confronti del mondo digitale, evidenziando problemi che già esistevano e accelerando cambiamenti che avrebbero comunque, prima o poi, preso piede”.