70 artisti dislocati in 8 differenti sedi espositive compongono Mediterranea 19, la Biennale dei giovani artisti in scena a San Marino dal 15 maggio al 31 ottobre 2021. School of Waters, questo il titolo della rassegna, si propone di decostruire gli stereotipi sedimentati attorno alla zona mediterranea.
Qualche tempo fa, casualmente, mi sono imbattuto in un’immagine ribaltata di 90° di una cartina dell’Europa. Quella, proprio quella cartina classica su cui siamo abituati a studiare fin dalle elementari. Ma questa volta, osservandola da una prospettiva così particolare, non ho visto il Vecchio Continente. Ho visto, come una rivelazione, il Mediterraneo. Posto in un’inusuale verticalità, il nostro mare, così familiare, mi è apparso nuovo, al centro della scena, rinnovato. Più vasto che mai, più capillare che mai, ha rovesciato in un attimo qualsiasi intenzione eurocentrica andando a bagnare con maggiore intensità territori solitamente schiacciati sul limitare inferiore del foglio.
Questa casualità, apparentemente innocua, mi è tornata in mente una volta giunto a San Marino, isola ideale libera da Covid-19 e limitazioni alle attività, che dal 15 maggio al 31 ottobre 2021 ospita Mediterranea 19, la Biennale dei giovani artisti. Il nome scelto dal team curatoriale per questa edizione – guidata da Alessandro Castiglioni e Simone Frangi – è School of Waters.
School of Waters, nei suoi intenti programmatici, non opera in modo differente da una cartina ribaltata: uno strumento collettivo di de-familiarizzazione dagli stereotipi che manipolano i nostri immaginari geografici, soprattutto quelli legati all’egemonia europea nell’interpretazione della zona mediterranea.
Così la Biennale scorre tra i vicoli della Repubblica indipendente incastonata nel cuore della Romagna disseminando le opere di oltre 70 artisti per le 8 sedi espositive che la città ha messo a disposizione. Dominano i medium della contemporaneità, con installazioni site specific e video su tutti. Domina l’internazionalità, con artisti (tutti under 35) provenienti da Tunisia, Spagna, Italia, Montenegro, Francia, Malta, Libano e non solo. Domina l’idea di acqua che sciacqua – nazionalismi e isolamento – e restituisce nuova vita tramite un rinnovamento geopolitico ed economico profondo.
Il concept curatoriale ci racconta della resistenza dell’acqua all’asservimento che la cultura impone alla terra (è impossibile scrivere sull’acqua) e della possibilità di ricominciare che essa ci offre. Dalle sue profondità emergono così le opere degli artisti in mostra. Se è impossibile raccontarle tutte, proviamo comunque a evidenziare alcuni spot degni di nota.
Cisterne di Palazzo Pubblico
Poste sotto il Palazzo Pubblico, le due cisterne – un tempo utilizzate, ovviamente, per contenere l’acqua che riforniva la Repubblica – rappresentano la sede espositiva forse più suggestiva dell’intera Biennale. Il buio, l’inevitabile umidità, il cadere lontano e ridondante di sottili gocce d’acqua, formano uno spazio da percorrere lentamente, ma senza fermarsi, attratti da una fonte di luce posta in lontananza. É l’istallazione di Marco Giordano, artista torinese di base a Glasgow. Interlude, posizionata al centro della seconda cisterna, è avvolta dal vapore che essa stessa genera.
Appare come una sorta di teatrino dove una serie di sculture in vetro – tutte diverse – riposano immobili. Dalle loro bocche soffia il vapore acqueo che una macchina, nascosta sotto il laghetto in cui idealmente nuotano, ottiene dalla vaporizzazione del liquido in essa contenuta. Il silenzio, avvolgente, è increspato solo dalla colonna sonora appositamente realizzata da Francesco Venturi. Il contesto è immersivo, l’opera totalizzante. Con delicata poesia Interlude racconta di quel momento di sospensione che precede la trasformazione. Sia in termini fisici (acqua che diventa aria) sia storici (un tempo le cisterne erano gonfie d’acqua, ora sature d’aria). L’installazione site-specific riflette così sul Mediterraneo come inimitabile piattaforma di cambiamento.
Galleria Nazionale
Visitando la Galleria Nazionale di San Marino si scopre che la piccola Repubblica vanta un’importante (e avanguardistica) vicenda artistica. Dalle storiche Biennali Internazionali d’Arte – guidate, come nel 1963, da personalità di spicco quali Giulio Carlo Argan – all’Archivio Performativo, fulcro delle attività del museo. Al suo interno si trovano, oltre al catalogo della collezione della Galleria, anche i progetti speciali da essa proposti. Si ricorda per esempio Provoc’arte, Provo carte, Provocar te, primo evento di arte pubblica realizzato a San Marino, curato da Roberto Daolio nel 1991, che ha portato alla realizzazione, all’interno della ex Galleria Ferroviaria “Il Montale”, di un intervento di Maurizio Cattelan.
In questo scenario troviamo A Bomb to be Reloaded. Si tratta del risultato, perlopiù documentale, della ricerca di Alessandra Ferrini attorno a Frantz Fanon e alla sua influenza sulla cultura italiana. In particolare si concentra sulla ricostruzione della biblioteca anticoloniale, ormai disassemblata, una volta parte del Centro di Documentazione Frantz Fanon di Milano.
La Rocca
Sulla sommità di San Marino vigila una torre, la Prima Torre, la Rocca. Imperdibile meta turistica, la costruzione risalente al XV secolo si è fatta per l’occasione sede espositiva. Sono in particolare gli spazi una volta adibiti a prigioni a essere coinvolti. Diverse le opere al suo interno: da Io sono un disgraziato il mio destino è di morir in prigione strangolato di Jacopo Rinaldi, che prosegue la sua ricerca su Gaetano Pesci, all’installazione metafisica di GianMarco Porru Per mezzo di stelle (2020).
Ma la sala più densa è forse quella che pone a confronto le opere di Binta Diaw (Uati’s Wisdom) e Virginia Russolo (Mappa 7). La prima appare come una sorta di polpo, cadente dal soffitto, composto da un materiale utilizzato come extension per capelli. L’intento dell’opera è duplice: da una parte rievoca la divinità africana Mami Wata, legata alla tradizione matriarcale di alcuni popoli; dall’altra utilizza il corpo femminile, un suo attributo in questo caso, per sviluppare le sue implicazioni sociali e psicologiche. In particolare provoca quell’abitudine sociale – sicuramente invadente, per certi versi violenta – di toccare i capelli delle donne africane. L’idea è che anche questa possa essere un residuo dell’approccio coloniale fondato sull’appropriazione.
Accanto ad essa dialoga l’opera di Russolo. Una mappa di luoghi non fisici, di luoghi che non esistono se non nella psicologia, individuale o collettiva. Questa non si sviluppa secondo meridiani e paralleli, ma seguendo percorsi ideali generati dai simboli che l’artista dissemina per le sue creazioni.
Palazzo Gregotti, SUMS – Società Unione Mutuo Soccorso
Negli spazi dell’ente No Profit della Repubblica di San Marino va in scena la raccolta più organica e diversificata delle opere in mostra. Per questa ragione potrebbe essere intesa come fulcro della Biennale, laddove molti artisti si ritrovano a dialogare. Tra questi citiamo Vanja Smiljanić, artista di Belgrado che propone un’installazione che è un crogiuolo di storie. Atlantis Carpet#2: Snake-sex-cult, enjoyment, and a fish prende piede dal mito di Atlantis, continente leggendario immaginato per la prima volta da Platone. Questo avrebbe compreso, in un’epoca lontana, la Corsica, Malta, la Sardegna, parte della Libia, del Marocco e delle isole greche. Un grande regno delle acque, caduto a causa della corruzione. Lo storytelling, anche se meno esplicito e più suggerito, è al centro anche delle opere ricamate di Sophie Utikal. I thought we had more time – diviso come in un trittico in (Remember), (Grief), (Change) – racconta il pericolo ambientale attraverso le traiettorie sempre incerte di alcuni animali acquatici. Degli arazzi pop: delicati e sognanti.