Vitone espone al Maxxi nove tele di impressioni atmosferiche spontanee, collocate dall’artista in diversi luoghi di Villa Adriana
La poetica di Luca Vitone è una danza in equilibrio tra frammenti, residui, intimi resti di realtà: impronte dai contorni poco definiti che pur nella loro aleatorietà, non fanno a meno di segnare con precisione il loro posizionamento. L’artista, con i suoi interventi site-specific, riporta la rappresentazione territoriale ad un grado zero, come fece ad esempio rimuovendo le indicazioni topologiche dalle mappe (ricordiamo appunto le sue Carte Atopiche, 1988), e ci permette così di perderci, per poi forse ritrovarci lasciando indietro ciò che pensavamo di sapere.
In questa mostra, disegnando paesaggi con fattori pulviscolari di rado considerati come degni indicatori, Vitone continua a delineare un neo – orientamento nello spazio e nel tempo, ponendo noi, umani visitatori, per una volta, ascoltatori e non protagonisti. Attraverso Io, Villa Adriana, esposizione bipartita tra Villa Adriana e il Museo Maxxi di Roma, Vitone ci propone coscientemente un percorso di dis-orientamento e ascolto del luogo, lasciando che gli agenti atmosferici del tempo e dello spazio imprimano sulle tele un autoritratto fedele di Villa Adriana non mediato dalla mano dell’artista, il quale opera come agente provocatore tra il supporto di impressione e il luogo impressionato.
Autoritratti di luoghi
Io, Roma,(2005), Ich, Rosa Luxemburg Platz (2008) Io, Fattorie Romeo del Castello a Randazzo (2012), Io, Fondazione Brodbeck (2012), etc. sono altri autoritratti di luoghi, precedenti a quest’ultimo, dove l’”Io” è la voce in prima persona del luogo d’intervento dell’artista. Ritratti dell’invisibile di quei luoghi, non della struttura architettonica e né questa volta, della planimetria del luogo stesso (ricordiamo la pianta 1:1 del PAC, Milano, ad Io, Luca Vitone, 2017), ma nove tele di impressioni atmosferiche spontanee, collocate dall’artista in diversi luoghi di Villa Adriana, sono quelle che troviamo esposte al Maxxi in mostra fino al 12 settembre.
“Polvere sei, polvere ritornerai”… “E polvere produci”, completerebbe Vitone. WunderKammer in tedesco si traduce con: camera delle meraviglie, termine che viene usato per parlare di luoghi o stanze stracolmi di oggetti. Un luogo che esprime l’ossessività di un collezionista che raccoglie. La WunderKammer di Vitone, invece, è piena di polvere. Insieme agli autoritratti di Villa Adriana, l’artista realizza anche un ritratto del luogo, in acquerello, utilizzando le polveri come anti-pigmento soluto in acqua su una delle pareti della sala Gian Ferrari che ospita la mostra: Wunderkammer (pensando alla volta celeste).
La camera delle meraviglie
La camera delle meraviglie Vitoniana non è frutto di un’accumulazione, come la tradizionale WunderKammer, ma dalla sottrazione di elementi. Vitone, ancora una volta, ha reso visibile ciò che di solito non è visto. La polvere è infatti considerata essere il punto di limite tra la visibilità e l’invisibilità dell’occhio umano. WunderKammer è un’opera che consiste in quella che si potrebbe definire una fotografia del tempo, applicata in uno spazio dove l’artista lascia che sia la polvere depositata nel luogo a definire l’opera in esposizione.
Nella stessa sala troviamo anche i Capricci, due stampe di Villa Adriana concepite da Piranesi, sulle quali l’artista ha inserito degli interventi in inchiostro. Al centro della Sala troviamo invece il Coccodrillo-Fontana risalente al II sec. d.C., rinvenuto negli anni Cinquanta del secolo scorso. Mentre emergeva dallo specchio d’acqua del Canopo di Villa Adriana. Dagli interstizi della pavimentazione delle Piccole terme si sprigiona un inno alle muse composto da Mesomede di Creta, liberto dell’imperatore Adriano, un canto che connette tempi lontani, prossimi e vicini in un’esplorazione archeologica nello spazio e decronologizzata nel tempo.
Ad orientarci in questo viaggio generosamente disseminato troviamo anche Ricondursi al luogo. Bussola: sette provini fotografici rappresentanti una bussola e collocati nel percorso che conduce dai Mouseia alla Rocca Bruna. Tra storia e mito poi fa da ponte un’opera che opera che allude al racconto biblico di Davide e Golia: Le cinque pietre di Davide. Infine, da tre cannocchiali “truccati” dall’artista con diapositive montate sulla lente è possibile osservare tre vedute di Roma dalla terrazza della Torre di Roccabruna.
Il non-guardato
Attraverso questa operazione espositiva, ancora una volta, Vitone dimostra una spiccata sensibilità e curiosità per il non-guardato, per gli enti trasparenti che sfuggono al controllo. L’uso dei sensi invisibili, l’olfatto e l’udito, poi l’uso della polvere, in seguito il progetto Romanistan, il popolo invisibile, denotano nel suo percorso una simpatia per l’anarchia delle cose, rispettando sempre, in tutti i suoi interventi, la loro libertà e spontanea esistenza, incontro ad un’etica artistica di natura non colonialista. La poetica di Vitone sembra agire come una silenziosa ribellione di ciò che dovrebbe essere nel modo in cui è già. Mettendo continuamente in discussione tutto, a partire dalla sua stessa espressione artistica, la quale evita il conforto dell’autoreferenzialità.
Difatti è proprio nella continua tensione sensibile tra il visibile e ciò che non lo è il territorio dove Luca Vitone ama lavorare. Come si esplicita ad esempio in una delle sue prime opere “L’invisibile Informa il Visibile” (1988); il termine ‘informa’ posto tra invisibile e visibile ci riporta ad un’esattezza che, tra invisibile e visibile, assume un tono autorevole. L’invisibile informa il visibile di qualcosa di cui, probabilmente, il visibile non è ancora al corrente. La pratica artistica Vitoniana è caratterizzata da una tendenza a far parlare luoghi, cose, memorie: le memorie dei luoghi, le memorie intime, le memorie collettive. Privando le sue opere della voce egoica dell’artista e lasciando parlare in prima persona invece, come in questo caso, i luoghi in cui si trova ad operare. È questa spontanea spinta nel portare all’ascolto le voci di altri e altro che trovo di una limpidezza sorprendente.
Un popolo trasparente
Il suo è un sincero interesse per ciò che passa spesso inascoltato, spesso non visto o dato per scontato. Come la polvere sotto un tappeto, o quella dietro un quadro. O quella che respiriamo (ricordiamo Per l’Eternità, Padiglione Italia Vice-Versa curato da Bartolomeo Pietromarchi alla Biennale di Venezia 2013). O, se pensiamo al progetto Romanistan, un viaggio alla scoperta di un popolo trasparente. La sua ricerca e pratica artistica agiscono come scavi rivelatori alla scoperta delle radici più profonde di ciò che non è scritto, accolto e documentato. Ma che ancora, inspiegabilmente, continua a cantare.