Tra accenti cromatici imprevedibili e geometrie simboliche ed esoteriche, l’opera di A.R. Penck (Ralf Winkler) mette in luce il percorso accidentato e complesso di un artista che da eccentrico outsider semisconosciuto è divenuto, assieme a Baselitz, Lupertz e Immendorff, un capofila del nuovo Espressionismo tedesco.
Il Tempo e la Storia. Da questa posizione eminentemente poetica bisogna partire per cercare di comprendere la straordinaria energia che l’opera di Penck emana. “Ho visto la morte del Tempo”, diceva il pittore tedesco (e La Mort du temps è stato anche il titolo della sua prima personale in Francia del 1996). Se per l’inconscio il tempo e la morte non esistono, per gran parte dei pensatori moderni il tempo ha una dimensione di finitezza, di esperienza vissuta più che di realtà oggettiva e assoluta. Il tema della finitezza si associa però al tempo come dimensione del mutamento senza requie. Immaginando di uscire dalla Storia e dal Tempo, Penck ricerca una forma primordiale, tra pittura e graffitismo. Prima del cogito c’è la verità, così che l’opera d’arte diviene il luogo privilegiato per una messinscena al cui interno lo scarto fra il sapere e la verità diviene traccia, scrittura di un progetto d’insieme che ambisce ad essere linguaggio primordiale, simbolico, atemporale.
Il tempo storico viene negato per un ritorno a “le premier primitif”, mentre il tempo della creazione si dissolve nella ripetizione delle forme. Sono i principi della serie Standart attraverso cui Penck vuole ritrovare i caratteri di un linguaggio universale, quello delle prime parole o di quello concepito sul modello del linguaggio informatico. Il tono è dato dal ritmo, perché l’opera, prima di divenire narrazione e meditazione, è mélos, canto. Una visione dell’arte quasi metafisica che prelude a una nuova nozione di libertà: il linguaggio figurativo serve a Penck per penetrare nella complessità dell’esistenza umana e nel contempo rifondare il linguaggio pittorico. La sua è una narrazione arcaica, una dimensione epica nutrita di filosofia e realizzata attraverso segni deliberatamente semplici e universali. Evidente il riferimento ai graffiti e alle pitture rupestri, verso i quali si pone, con più profondità speculativa, allineandosi a Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, (al pittore underground Penck ha dedicato un omaggio attraverso un immenso trittico colorato).
Dai quadri in bianco e nero, tra personaggi inquietanti ai limiti di astrazione e scrittura, si passa al regno del colore, dove ogni spazio viene saturato quasi l’artista fosse posseduto da un insopportabile, insostenibile horror vacui. Se all’inizio la sua arte è eminentemente politica – Folterung Torture (1955), Nel fango (1969) – nella sua meditazione si delineano man mano i segni semplici e universali che caratterizzeranno l’evoluzione della sua pittura. Penck continua ad approfondire le possibilità espressive e ritmiche di personaggi e forme simboliche elementari disposti a incastro fino a saturare uno spazio pittorico coloratissimo, che caratterizza anche l’ultimo ciclo di opere. Si tratta di carte e tele dipinte negli ultimi anni, che ripetono poche figure fisse, combinazioni che con tratti essenziali raccontano dell’uomo contemporaneo, elementi simbolici o geometrici si alternano a immagini di uccelli da preda, serpenti e strani omini dal volto a losanga.
Autodidatta, A.R. Penck (Dresda 1939 – Zurigo 2017) è stato pittore, disegnatore, scultore, regista, scrittore, musicista (ha pubblicato il suo primo album nel 1979, è stato percussionista solista e ha fatto parte di gruppi free-jazz), spesso costretto dalla sua stessa vicenda esistenziale a ripartire da zero. Colpito e quasi annientato, durante la guerra, dalla distruzione della sua città, Dresda, nella sua opera diventano fondamentali alcuni temi quali la sopravvivenza e la vita, le quali si si contrappongono alla morte (nei suoi quadri si può cogliere una foresta di simboli legati alla vita, come cellule, embrioni e cromosomi).
Ha pubblicato scritti filosofici e polemici. La sua prima esposizione è stata nel 1956 a Dresda e a Berlino; nei primi anni ‘60 ha elaborato uno stile immediato e sommario, Weltbilder 1961, serie Systembilder 1964, serie Standart 1970. Ha lavorato spesso in collaborazione con artisti, con G.Baselitz e J. Immendorf in particolare, sperimentando vari mezzi espressivi, musica jazz, poesia, cinema e firmandosi con diversi pseudonimi (Mike Hammer, TM, Ypsilon, Alpha, ecc.). Dalla fine degli anni Settanta si è dedicato anche alla scultura. Ha esposto in rassegne internazionali e in mostre collettive e personali: 1996 e 2000-01 a Parigi, Galerie Jérôme de Noirmont; negli Stati Uniti, in Cina e in Giappone. La sua ultima esposizione a cui ha assistito, prima di morire, è stata in Francia nel 2017 alla Fondazione Maeght.