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L’insostenibile leggerezza dei corpi. Una mostra racconta il nostro rapporto con la fisicità, a Milano

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Corpus domini racconta in una serie di contaminazioni percettive il nostro rapporto con la fisicità, con quel corpo che assurge a una sacralità laica. Il percorso espositivo è costruito sulla varietà attraverso le opere di 34 artisti, tra cui spiccano alcune icone: Joseph Beuys, Christian Boltanski, AES+F, Chen Zhen, John DeAndrea, Joseph Kosuth, Charles LeDray, Oscar Muñoz, Gina Pane, Marc Quinn, Carol Rama, Chiharu Shiota, Marc Sijan, Dayanita Singh, Sun Yuan&Peng Yu, Gavin Turk.
Un’immersione tra analogie e differenze, dall’anticonformismo della Body Art alla meccanicità dell’Iperrealismo arrivando alla futuristica smaterializzazione digitale, tanto è il corpo il minimo comune denominatore.

LA SINTASSI DELL’IDENTITÀ
“La perdita di identità; il rifiuto del prevalere del senso della realtà sulla sfera emozionale; la romantica ribellione alla dipendenza da qualcuno o da qualcosa; la tenerezza come meta mancata e quindi frustrante; l’assenza di una forma adulta, altruistica, d’amore”.
Descriveva così, la Body Art, Lea Vergine, conosciuta per i suoi studi pionieristici sulle pratiche artistiche legate all’utilizzo del corpo. Per lei era l’arte con cui il corpo riesce a estraniarsi da ciò che rappresenta e diventare altro da se stesso.
Nella prima sala a lei dedicata la vediamo smaterializzata in una videoinstallazione tra opere significative del movimento ma anche libri e foto.
Subito dopo l’installazione di Joseph Kosuth sembra metterci in guardia su quello che ci si paventerà davanti. L’artista concettuale lo fa a modo suo, citando l’adorato Samuel Beckett. La parola prende il posto del corpo, sul neon campeggia: Whatever it is they are searching for it is not that. (Qualunque cosa stiano cercando, non è questo).

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IL TEMPO FISICO
Tutto parte dagli anni Sessanta con gli esponenti della Body Art come Gina Pane, Urs Luthi e Franko B che sperimentano con il proprio corpo in maniera più o meno violenta, scegliendo di mostrarne la naturale nudità, ferendolo o modificandolo per contrastrae l’estetica borghese.
È un corpo politico e ribelle che segna un’epoca e contrasta i tabù. L’opera Azione sentimentale dell’artista italo-francese ne è un perfetto esempio, per lei vivere il proprio corpo significava “scoprire sia la propria debolezza , sia la tragica ed impietosa schiavitù delle proprie manchevolezze, della propria usura e della propria precarietà”.

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Corpus domini costruisce una narrazione su più piani per raccontare la molteplicità della rappresentazione dell’essere umano. Significativo l’apporto di Christian Boltanski che Le Terril Grand-Hornu impila una moltitudine di giacche da lavoro scure appartenute a minatori della regione Grand-Hornu, perché si può parlare del corpo affaticato anche indirettamente senza mostrarne la carne sudata e sporca.
La scena cambia nuovamente con gli altri protagonisti: i corpi sgargianti (come la scultura in resina Next Summer di Carola Feuerman), quelli fragili quasi invisibili (ne è un esempio Unloved, bambino sulla spiaggia di Franko B), finanche sfigurati, dalle declinazioni più storiche e avanguardistiche a quelle contemporenee.
Il corpo di Gino De Dominicis invece si smaterializza nella risata che riecheggia in loop.

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L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL CORPO
Dopo la fase più sperimentale (in parte anche brutale) il corpo torna ad essere celebrato con sperimentazioni che puntano più a inglobare le nuove contaminazioni, quelle tecnologiche per esempio, o nuove fissazioni, come l’esteriorità sempre più al centro della nostra vita 2.0.
Il corpo di oggi si dematerializza, è più apparenza che fisicità, risponde all’estetica dei social.
Il confine tra invenzione e realtà è sempre più labile, questultima viene assorbita costantemente dai nostri display, come dimostra la persistenza dello schermo stesso nelle nostre vite: quello piatto della tv e del computer, ma anche i videogiochi, gli smartphone. I dispositivi addirittura “ci riconoscono” tramite le nostre impronte digitali o i nostri occhi. Lo schermo annulla la distanza tra il pubblico e la scena, lo invita a immergersi fornendo una realtà smaterializzata ma a portata di mano. Non a caso lo scrittore Jean Baudrillard aveva iniziato a parlare di “palcoscenico video” già negli anni Sessanta e le piattaforme social non hanno fatto che ampliare questo aspetto: “reinventare il reale come finzione, perché il reale è scomparso dalla nostra vita.”

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CorpusDomini_FotoAllestimento_Basheski_EdoardoValle

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