È stata la mano di Dio, il racconto di formazione di Paolo Sorrentino, tra autobiografia e fantasia, tra Fellini e Maradona
Lo stavamo aspettando tutti: Leone d’argento a Venezia, rappresentante dell’Italia agli Oscar 2022 e Premio Mastroianni per il giovane Filippo Scotti. È stata la mano di Dio è il nono lavoro di Paolo Sorrentino, a vent’anni esatti dal suo brillante esordio: L’uomo in più (2001). E dopo vent’anni, il nostro (forse, ma probabilmente) più grande cineasta contemporaneo decide di aprirsi e raccontarsi sinceramente come mai aveva fatto prima.
«Nel film c’è una scena che a me ha emozionato molto – ha racontato Toni Servillo – cioè quando Capuano si rivolge a Fabietto e gli dice “a’tieni na’ cosa a’ dicere?” e Fabietto reagisce dicendo “Sì!”, ma poi non dice che cosa dirà. Ecco e io sono felice di aver partecipato a quei vent’anni successivi in cui abbiamo detto delle cose insieme. D’altronde spesso Paolo ha detto che io sono come una specie di fratello maggiore qui sono stato promosso sul campo, sono diventato un papà».
Sorrentino decide di raccontarsi come solo i grandi artisti sanno fare, cioè con il buon equilibrio tra fantasia e realtà. Racconta la sua Napoli, la sua adolescenza, le sue paure e i suoi traumi. Ma soprattutto racconta di come il caso (o Maradona) gli abbia salvato la vita e di come, nel frattempo, l’abbia tolta ai suoi genitori.
È stata la mano di Dio è un racconto di formazione che chiama in causa il ricordo e la nostalgia, la solitudine e le amarezze, il passato e il futuro. Mai Sorrentino è stato così intimo e mai si è esposto così tanto in prima persona. Si annusa realtà in tutte le scene, in tutte le location e in tutte le storie che raccontano i personaggi.
Il vero protagonista del film è il silenzio. I rumori ambientali spesso vengono fatti da parte per isolare i personaggi dal loro contesto, per non distrarre lo spettatore dal vero senso del film che risiede nel volto e nelle emozioni di Fabietto. I film di Sorrentino sono spesso bombardati di musica e di barocchismi visivi, qui manca tutto questo suo stile caratteristico perché cambia la forma del racconto, lavorando per sottrazione (alla Bresson). Si inventa un cinema nuovo, un cinema che ha a che fare con Roma e con la ricostruzione di un passato lontano, con Proust e la Recherche, con Nuovo cinema paradiso (omaggiato direttamente).
E se La grande bellezza esisteva perché esisteva La dolce vita, questo film esiste perché esiste Amarcord. Fellini trasuda nelle inquadrature del film, si sente nei personaggi pittoreschi che colorano Napoli e si sente, letteralmente, quando Fabietto accompagna il fratello al casting di un suo film.
In sala è raro sentire la gente ridere sguaiata per quasi mezz’ora di fila, e soprattutto è raro sentire la gente ridere davanti a un film di Sorrentino. E invece qui si ride, e di gusto. Tutta la prima metà del film è un susseguirsi di battute e gag comiche scaturite dalla semplice visione di uno spaccato di vita quotidiano.
Seguiamo la famiglia di Fabietto nelle sue piccole faccende giornaliere, vediamo tutto l’amore dei suoi genitori e la gioia di quei tempi ormai lontani. Poi si cambia registro e si rimane spezzati. In silenzio davanti alla tragedia si capisce quanto la felicità di Fabietto sia durata un attimo, uno sparuto istante. Si deve già pensare al futuro, si deve pensare a ripartire da capo, ad andare avanti nonostante tutto, a “fare il cinema”.
Napoli non è mai stata così fortunata ad avere un narratore come Sorrentino. Il film diventa un inno d’amore per la città campana e un inno d’amore in generale alle proprie radici, al proprio passato. Le emozioni di Fabietto vengono gettate in faccia allo spettatore in modo pulito, autentico. Non c’è retorica, non c’è musica che accompagna e aiuta l’empatia, c’è solo la cruda realtà fotografata in lunghi piani sequenza che mostrano tutta la complessità dell’umano. C’è Fabietto che urla e scaraventa le sedie contro il muro, c’è un suo attacco al sentire il dolore della madre e c’è la rabbia quando alla fine urla in faccia a Capuano.
Il film sembra essersi diretto da solo. La maturità registica di Sorrentino sembra aver toccato un vertice e una saggezza tale che permette di sperare addirittura in un secondo Oscar tra le mani. La nuova fotografia (qui per la prima volta senza Bigazzi), la direzione attoriale e il perfetto casting effettuato; la cura per le scenografie e l’accortezza naturalistica della sceneggiatura creano un prodotto a dir poco stupefacente, un nuovo passo per il cinema partenopeo e una sincera lettera di umanità da parte di uno dei nostri più grandi cineasti.
Così come Fabietto, in treno verso Roma, si appresta ad affrontare una nuova sfida e un nuovo futuro, così speriamo che il cinema di Sorrentino prosegua su questa nuova strada e ci regali altre grandi emozioni come quelle regalatoci in questo, senza ombra di dubbio, Capolavoro.