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L’arte da Champions League. Il perché del successo degli artisti: organizzazione, programmazione, qualità e fortuna

Jeff Koons_Un ritratto privato
Bruno Ceccobelli, 2015, Photo Courtesy Auro e Celso Ceccobelli
Bruno Ceccobelli, 2015, Photo Courtesy Auro e Celso Ceccobelli
Amarcord 49 – ARTE DA CHAMPIONS LEAGUE, DI SERIE A-B-C-D-E-Z.. Un nuovo appuntamento con  la rubrica di Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi

L’amico Gaetano Grillo, su mia richiesta, mi inoltra una esternazione di Bruno Ceccobelli apparsa tempo fa su ArtsLife, “Sanificare anche l’Arte?“. Il simpatico e bravissimo Bruno, dal suo eremo di Todi, che immagino bellissimo e gradevolissimo, dove si vive da dio e si mangia anche meglio, ma certamente un po’ fuori dal tempo e dalla storia della creatività e dell’innovazione (tutti i paesi umbri e non solo, sono così, il paradiso di chi desidera vivere serenamente e a lungo e mangiare meravigliosamente e fare arte per se stessi), ama ergersi a Vate della cultura nuova, auspicando, con l’aiuto della Covid-19, una sorta di nuovo Rinascimento che forse dovrebbe partire proprio da Todi, accusando dei cambiamenti degli ultimi 60 anni e che a lui sembrano innaturali: i poteri forti delle gallerie, le mafie culturali che si sono appropriate della creatività contemporanea e dell’imprimatur per creare artisti e il sempreverde all’occorrenza 1968. Ma questa è anche la visione di centinaia, di migliaia, forse milioni di artisti di tutto il mondo (e il 99% degli artisti italiani?). La loro mancata scalata ai vertici della notorietà nazionale o internazionale è dovuta agli altri, che sono cattivi, opportunisti, cinici, sostenuti dal mercato e ostaggio dei poteri forti. Invece non vogliono capire che esiste un’arte da Champions League, di serie A-B-C-D-E-Z.

Scegliere di fare l’artista è una follia.
Dice Charles Saatchi

Il buon Bruno Ceccobelli, che parla anche, mi pare, di sacralità dell’arte (mio dio, lasciamo perdere questa lettura oscurantista dell’arte) e si acconcia un po’ a guru, non sa che il successo in arte è faccenda seria, da combattenti di grande qualità e abilità e resistenza psicofisica, che la selezione per diventare Jeff Koons o Cattelan è dura, durissima e non può essere appannaggio di anime tenere: occorre immensa qualità, mobilità immaginativa, senso del tempo, il famoso Zeitgeist, e molta, molta fortuna. E operare in un grande centro di creatività e di cultura anche trasgressiva.

Se però, come credo faccia Ceccobelli, parliamo dell’arte come terapia o relax, va bene tutto, anche la cima dell’Everest. Ma Picasso, di cui ho parlato nel precedente Amarcord, ha combattuto come un leone per diventare Picasso: ha rubato, violentato amici e soprattutto amiche (compresa la grande collezionista Gertrude Stein) e, guarda caso, operava a Parigi, la sola e indiscussa capitale mondiale dell’arte di quel momento. Non si diventa geni abitando a Malaga, dove Picasso nacque. «Essere un buon artista», dice il grande collezionista Charles Saatchi, «è il lavoro più duro al mondo e bisogna avere una piccola dose di follia per sceglierlo». «I collezionisti?», prosegue Saatchi, «Senza di loro il mondo dell’arte sarebbe in mano allo Stato, un mondo irreale di arte approvata da funzionari di partito, autorizzata dal Ministero della Cultura».

Invece di vivere di rancori e frustrazioni io credo che ognuno dovrebbe riconoscere i propri pregi e limiti, felice di svolgere un lavoro bellissimo e in totale libertà. C’è l’artista apprezzato nel proprio paese dal sindaco, dal pubblico e dall’intellighènzia locale che ha maggiori soddisfazioni di Jeff Koons che non è conosciuto nemmeno dal vicino di casa. Alcuni anni fa, mi raccontava Jeff, un gruppo di persone si presentarono nel suo studio chiedendo di Mark Kostabi, che invece aveva lo studio al piano inferiore. Nemmeno il portiere dello stabile sapeva chi fosse Jeff Koons e ha indicato al gruppo di collezionisti che cercavano un pittore, il piano sbagliato. Figuriamoci il sindaco di New York se conosce Jeff. Invece vuoi mettere essere il primo pittore di Todi, come Bruno Ceccobelli, riverito e ammirato da tutti e porte aperte in ogni luogo e nel corso principale? La gente che ce l’ha, si toglie il cappello al suo passaggio, e i ristoranti lo accolgono con: «Benvenuto Maestro!». Anche il mio amico Oscar Piattella, re di Cantiano, nelle Marche, è venerato come una reliquia. Vi assicuro che certe soddisfazioni e attenzioni Jeff Koons e Damien Hirst non le hanno mai avute.

Bruno Ceccobelli, Bandiere, 2014 (foto di Auro e Celso Ceccobelli).

Ho giocato con il Real Madrid e il Bayern Monaco

Credetemi cari amici lettori, io le ho conosciute tutte le categorie e anche gli stati d’animo degli artisti e della popolarità. Attraverso le Lettere al Direttore su Flash Art, per oltre trent’anni, sono stato il confessore di migliaia di artisti giovani e non, che abitavano nelle periferie ma anche nelle città culturalmente più avanzate. Figuratevi se non conosco la psicologia dell’artista, talvolta anche bravo e molto voglioso di affermarsi, le sue comprensive e dolorose frustrazioni per non poter accedere ai gradini più alti della visibilità.

Da ragazzo giocavo a calcio con il Faustana, il mio paesino di 200 abitanti, in cui per arrivare a undici calciatori dovevamo invitare Costantino, un aitante contadino di 65 anni in pensione, e anche la “Pantegana”, un difensore grintoso e insuperabile di anni 60 più bravo di Maldini; poi ho giocato con il Bovara, la mia parrocchia (500 abitanti) quindi con il Trevi (7 mila). E persino due o tre partite amichevoli con il Foligno, che allora militava in serie D (l’allenatore era il mio professore di ginnastica che apprezzava il mio interesse per la poesia). Ed ero felicissimo sia con il Faustana Football Club che con il Foligno. Amavo follemente giocare e non chiedevo altro. Ero felice di giocare ovunque e con chiunque.

Ma poi ho giocato nelle serie maggiori, anche con il Real Madrid o il Bayern Monaco, cioè quando sono uscito a cena con Jeff Koons o Damien Hirst o Maurizio Cattelan, da cui ho imparato più che in eventuali anni di accademia o università italiane, dove docenti incolpevolmente impreparati e senza alcuna esperienza di arte contemporanea (che si acquisisce coabitando con artisti, curatori, collezionisti seri) insegnano il vuoto, l’irreale, il non-sense. Vuota e antiquata cultura libresca, perché parlano di un’arte che non esiste più o che non è mai esistita. Per tantissimi fare arte è prendere una tela e pittare. Certo, per la maggioranza di artisti è così ed è una fortuna che lo sia, una terapia incredibile e senza di loro non ci sarebbe l’interesse universale per l’arte, sono loro il grande serbatoio culturale che dà corpo e senso al sistema dell’arte.

Da questa base partono i livelli di notorietà. Ma il mio Real Madrid o Bayern Monaco (cioè Jeff Koons, Damien Hirst), sono altra cosa e sono loro che mi hanno fatto capire cosa è la grande intelligenza (non oso ancora parlare di genio, ma ci siamo molto vicini), il tempo presente e quello prossimo. E davanti alle loro idee e intuizioni mi sono sentito un verme. Peggio di un calciatore in panchina.

 

Giancarlo Politi, Jeff Koons e Helena Kontova (1997).

Io sono il solo artista eterno

Jeff, tra le tantissime cose che mi ha fatto apprendere, con la sua arrogante umiltà e attenzione per tutti, e curioso di tutto, era la funzione sociale del suo lavoro, confessandomi che lui voleva essere apprezzato dall’operaio al grande curatore o gallerista o collezionista. E così è stato infatti. E mi aggiungeva: «Io sono il solo artista eterno. Il mio lavoro, prodotto anche dai fornitori della NASA, è garantito per 10 mila anni. Chi come me?» mi chiedeva sorridendo, e io non capivo se scherzasse o no.

E Damien Hirst che mi raccontava: «I miei compagni di classe, i Blur (un famoso gruppo musicale degli anni ’90) hanno già l’aereo personale. Io non conosco alcun artista che a questa età (19-20 anni) abbia l’aereo personale. Io sarò il primo!» e per ottenere l’aereo personale e una carriera fulminante pianificò il suo percorso prima presentandosi a Charles Saatchi, allora il collezionista più influente al mondo, ma anche il più curioso e attento, proponendogli di organizzare e sponsorizzare una mostra di giovani artisti inglesi (gli ormai leggendari YBA: Young British Artists) poi scegliendo il suo compagno di banco come manager: «Tu devi essere il mio agente e mercante!». Il compagno rispose: «Va bene, ma cosa dovrei fare?». Il compagno si chiamava Jay Jopling (e ora la sua White Cube è una delle tre/quattro gallerie più autorevoli al mondo) e la prima operazione, appena terminati gli studi, fu di organizzare una mostra di Damien in un appartamento privato a New York, escludendo qualsiasi galleria e con inviti super selezionati. Figurati la curiosità e le invidie che scatenò a New York, città veramente curiosa dove se tu sei bravo vieni immediatamente riconosciuto, non come le addormentate città italiane o di quasi tutti gli altri Paesi dove qualsiasi cosa tu faccia, anche di meraviglioso, non succede nulla.

Da noi, se un artista organizza una mostra in un appartamento privato sarà marchiato a vita, come un dilettante senza speranze. Invece la mostra di Damien Hirst in un appartamento privato, con buttafuori all’ingresso che dice: «Tu sì, tu no!», decretò la nascita di una stella dell’arte.

Il successo nell’arte? Organizzazione e programmazione

Poco prima Damien aveva lavorato per una piccola agenzia di ricerca di oggetti, anche strani, per scenografie ed eventi. Tramite questo semplice lavoro venne a sapere che un pescatore australiano vendeva squali conservati in formaldeide. Lo contattò e per 6 mila dollari (più 3 di trasporto) acquistò il suo famoso squalo che espose ad Aperto ’93 e che lo rese famoso. Jeff Koons aveva lavorato come broker a Wall Street e poi come direttore di vendita (senza stipendio ma con una percentuale sugli incassi) degli abbonamenti al MoMA, il cui budget in un anno passò da un milione di dollari a cento milioni. Notate la differenza. Lui mette in disparte l’annoiata burocrazia del MoMA, aprendo il basement del museo a matrimoni, alla moda, alle convention di uomini di affari, presentazioni di libri e prodotti commerciali, ecc. Sempre con molta classe e stile. Anche il reparto oggettistica e design, trainato dai nuovi arrivati, decuplicò il suo fatturato.

Perché racconto questo? Per dimostrare che in arte come nella vita e in qualsiasi professione, esistono i diversi livelli. Dove le qualità personali, la capacità organizzativa, la città dove tu operi e la fortuna, fanno la differenza. Mi spiace che molti artisti non riconoscano questo e si autocompiangano e si frustrino. La sola qualità (ammesso che ci sia) non è sufficiente per emergere. Il successo, almeno ai nostri tempi, è organizzazione, programmazione, tantissima qualità e molta molta fortuna. Nella mia vita ho visto ottimi pittori o artisti restare al palo per idealismo e assoluta mancanza di pragmatismo e organizzazione, pensando che la gloria sarebbe arrivata comunque perché si sentivano bravi ed erano vezzeggiati da amici e parenti. Peccato. Per alcuni di loro, veramente bravi, mi piange ancora il cuore. Ma la vita, a tutti i livelli è, ahimè, intelligenza, organizzazione e programmazione. Formica e cicala insieme.

I trend culturali non si possono fermare

Ah, dimenticavo una cosa importante e non da tutti considerata. I trend culturali non si possono fermare. Sono degli tsunami che non sai da dove nascono e dove finiranno. Alimentati da tutti e da nessuno. Come una tempesta che arriva e poi se ne va.

PS: Bruno Ceccobelli torna il 12 gennaio, sul sempre ben informato ArtsLife, con le sue teorie mistiche, a parlare di arte e del sistema dell’arte. Ignorando che le grandi gallerie e il sistema dell’arte sono intelligenti e sempre pronte a cambiare per modificarsi. Sostituire Jeff Koons e Damien Hirst con un artista africano? Un gioco. E forse un divertimento.

 

Per scrivere a Giancarlo Politi:
giancarlo@flashartonline.com

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