Print Friendly and PDF

Quando la censura della guerra bombarda la cultura. Ma la bellezza è incancellabile

Illustrazione di Eric Drooker

La violenza della censura bombarda la cultura sia in Russia che da noi. Anche la rabbia dell’aggredito spesso offusca la mente. Ma la bellezza è incancellabile. Allora scatta una provocazione… Perché non sbattere in galera gli artisti che parteggiano per Putin? D’altro canto non avrebbero motivo di opporsi, visto che approvano gli arresti di pittori, registi e performer avvenuti di recente a Mosca. Chi non ama la libertà di stampa e la democrazia dovrebbe non godere di questi privilegi occidentali. Se ne vadano dall’Europa!

Si possono bannare Dostoevskij, Tolstoj o Tchaikovsky solo perché sono russi? Ma certo che no, che non si dovrebbe, che è una incredibile idiozia. Però lo fanno. E l’abbiamo sempre fatto, tutte le volte che i cannoni hanno preso la parola al posto della voce. Ha ragione Paolo Manazza a chiedersi come sia possibile cancellare la Bellezza: «Non credo che i russi siano così stupidi da impedire a Kant di essere presente nelle loro biblioteche. E’ evidente che vale molto di più perseguitare i vivi». Il fatto è che è proprio per questo che quando scoppia una guerra fra le prime vittime ci sono l’arte e la cultura, perché i cannoni non riusciranno mai a capire quel che dice Dostoevskij e ci sono parole che restano vive anche quando chi le ha trovate non c’è più.

Se la cancel culture non fa vincere le guerre e boicottare gli artisti e gli scrittori è inutile, oltre che idiota, la stupidità della violenza e di tutti quelli che si arrendono alla sua legge non potrà mai afferrare questi piccoli particolari. Stare dalla parte dell’Ucraina non significa vietare il cinema che non ti piace, censurare la cultura o impedire di leggere un buon libro scritto da uno che è solo nato nella terra dei nemici. E non significa nemmeno intimorire uno che non dimostra la tua stessa animosità.

Natalia Aspesi ha raccontato il caso del regista ucraino Sergei Loznitsa, nato 58 anni fa nella Bielorussia sovietica, oggi residente in Germania, e cacciato dalla Ukrainian Film Academy con l’incredibile motivazione di «aver espresso parole di solidarietà al popolo ucraino troppo conformiste, blande, inefficaci».
L’artista aveva due grandi colpe agli occhi della guerra. La prima è che aveva avuto il torto di opporsi al boicottaggio del cinema russo, e la seconda per aver realizzato un film famoso qualche anno fa che si intitolava «Baby Yar: context» e raccontava il massacro di più di 30mila ebrei compiuto alle porte dei Kiev dai nazisti con la solidale collaborazione della polizia ucraina.

Sergei Loznitsa

La storia a volte è già scritta e rilevarla è un atto di coraggio, da qualunque parte venga. Alle fine però Loznitsa prima di dimettersi anche dall’European Film Academy ha voluto lasciare il suo timbro nel discorso d’addio: «Io sono un regista ucraino», ha detto alzando la voce. «E lo sarò per sempre».

Ma la paura e lo stigma della Russia e dei russi stanno sconfinando oltre i limiti della ragione coinvolgendo autori che non solo non hanno nessuna responsabilità in quello che sta accadendo, ma che hanno sempre pagato a caro prezzo la loro opposizione a qualsiasi volontà di potere di stampo zarista o imperiale.

Il caso più famoso è quello di Paolo Nori all’Università Bicocca, che ha dovuto rinunciare alle lezioni su Dostoevskij, ma non è il solo. La Children Book Fair di Bologna ha sospeso ogni collaborazione con le organizzazioni russe. E anche la Galleria Accademia di Firenze e la Royal Opera House di Londra sono vietate agli artisti di quel Paese (per fortuna, invece, il direttore degli Uffizi Eike Schmidt ha deciso di non chiudere il museo delle icone russe a Palazzo Pitti). Persino la casa editrice Voland è stata invitata a non pubblicare libri russi. Poi a Reggio Emilia il Festival della Fotografia Europea, che si svolge da fine aprile a giugno e che aveva come ospite la Russia, ha deciso che non si farà più perché gli organizzatori non possono avere rapporti con un Paese che è un aggressore. Poco importa che uno dei tre artisti, Alexander Gronsky, sia stato arrestato in Russia perché protestava contro la guerra.

 

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Alexander Gronsky (@gronsky)

Il cannone non ascolta mai le voci degli innocenti. Tutti quelli che boicottano gli autori russi chissà se sanno davvero chi sono. Dostoevskij evitò il patibolo, ma venne incarcerato e avviato ai lavori forzati, Tolstoj fu colpito dalla censura perché descrivendo la guerra russo turca in Crimea aveva utilizzato uno spietato realismo, senza alcuna forma di romanticismo e patriottismo. E morto lo zar, Majakovskij finì suicida, il grande Bulgakov messo a tacere e allontanato, il regista teatrale Mejerchol’d fucilato nel 1940 perchè si era rifiutato di sospendere le prove di un’opera di Prokof’ev non gradita al regime, Pil’njak sparito in Siberia dove era deportato, Boris Pasternak ridotto al silenzio, Solzenicyn condannato ai lavori forzati nei gulag perché in una lettera a un amico si era permesso di criticare lo stalinismo.

Come si possono confondere i palazzi del potere con un popolo che ne è stato la prima vittima? Come si fa a ignorare che proprio dal settore della cultura sono partite delle lettere aperte contro la guerra firmate da migliaia di lavoratori, e che tanti di loro sono finiti in carcere per aver manifestato il loro dissenso?

A Mosca adesso è appena stata approvata una nuova legge che definisce la diffusione di fake news come un reato criminale, punendone gli autori con pene fino a 15 anni di prigione. Il problema è che sarà un Tribunale di Stato a giudicare quali sono le notizie vere e quelle false. Cioé, se parli bene di Putin dici la verità, se no racconti una fake news e ti fai 15 anni di galera.  E’ evidente che siamo di fronte a una legge liberticida che metterà un definitivo bavaglio alla libertà di stampa.

Vogliamo fare anche noi le stesse cose da questa parte del mondo? Chiunque giustifica in qualche modo l’aggressione all’Ucraina, lo sbattiamo dietro le sbarre. Guardate che non è una semplice provocazione. Se facessimo lo sforzo di andare a leggere i giornali del 1939, all’inizio dell’ultimo conflitto mondiale, scopriremmo che la Germania e il Belgio, e prima ancora la Cecoslovacchia, gli aggressori e le sue vittime, usavano gli stessi toni e persino a volte le stesse parole. Dovremmo arrenderci all’evidenza. Da quando l’umanità si affida a una guerra, qualsiasi guerra, per dirimere i suoi contrasti, ogni ragionevolezza viene sconfitta dalla violenza e dalle stragi. Il confronto si declina soltanto più sulla legge del più forte, sulla muscolarità, sulle armi che annientano l’avversario.

La verità è che quando scoppia una guerra non ci sono più regole del gioco. E la letteratura e la cultura diventano elementi pericolosi e sovversivi agli occhi di tutti i padroni del fuoco, perché la loro ragione è un’altra e un’altra la loro missione: unire anzichè dividere. E allora facciamo la guerra e al diavolo tutto, e condanniamo anche il Papa che fa reggere la croce a una donna ucraina e una russa, al punto da vietare la trasmissione tv della via Crucis anche a Kiev. Su quella croce c’è il Cristo inchiodato che ci saluta dicendo «vi lascio la pace, vi do la mia pace». Ma questa è un’altra storia.

Commenta con Facebook