Fino al 31 luglio 2022 la Galleria Lorenzo Vatalaro ospita a Milano la personale di Marcovinicio. Il pittore ritrae paesaggi interiori, proiezioni di stati d’animo che prendono le sembianze di una montagna.
La pittura à-plat – quella che Paul Gauguin, “maestro indiscusso del Novecento, il più moderno in assoluto” a detta di Marcovinicio stesso, adottò come strumento d’evasione pittorico-cromatica dal quotidiano mal de vivre – scandisce nelle opere del pittore piemontese potenti visioni montane, che paiono scorte in sogno pur non essendo prive dei precisi connotati del reale.
Tache – ovvero chiazze nere, soprattutto, ma anche bianche, giallo acido, ocra, verde, azzurro o indaco –, spatolate a stesura ampia e uniforme e ritagliate sulla superficie dipinta fino a comporre, come in un gioco di scuro-chiaro, negativo-positivo, vuoto-pieno, ombra-luce, i soggetti della rappresentazione: questa la tecnica adottata da Marcovinicio nelle opere degli anni Novanta presentate a Milano presso la Galleria Lorenzo Vatalaro (fino al 31 luglio) in una sintetica e preziosa selezione, messa a punto negli anni dal gallerista stesso, in dialogo con alcune fotografie di Vittorio Sella, celebre obiettivo di fine Ottocento e primo Novecento, sensibile al fascino dei paesaggi di neve, rocce, laghi, cielo.
Montagne, dalla cresta aguzza ma compatte come magma solidificato, chiudono dunque l’orizzonte visivo di questi grandi olii su carta di Marcovinicio, fissati a carbone. Sì, perché l’artista ha casa a Domodossola, e in Val d’Ossola si dedica anima e corpo alla pittura, cogliendo sempre cose non dette, o perlomeno mai direttamente esplicitate, che albergano nello spazio che il suo occhio abbraccia scrutando vette e vallate.
Fatti misteriosi o intinti di una quotidianità che, al di là della riconoscibilità del profilo di una mucca, di una picozza o di una baita, la traccia di un sentiero che si inerpica verso il colle o di una diga che incornicia il fondovalle, allude alla soprannaturalità di luoghi, animali, cose. Spiega: “Sono paesaggi interiori, proiezioni di stati d’animo in una dimensione esterna al mio corpo ma intimamente connessa con il mio essere, come si trattasse di autoritratti ideali trasposti, grazie al pennello, nella materia”.
La sua immersione nei panorami alpini non è causale. Vinicio è nato a Premosello-Chiovenda, un borgo del Verbano-Cusio-Ossola, e benché negli anni Ottanta e Novanta abbia guardato a orizzonti vasti e compositi – ebbe contatti con l’entourage di Lucio Amelio, ma anche con Mimmo Paladino –, nel nuovo Millennio si è legato sempre più strettamente all’ambiente alpestre che più gli è congeniale dal punto di vista espressivo, trasformandosi in onirico poeta del rapporto uomo-natura in chiave sottilmente contemporanea. Fra i suoi compagni di viaggio, Franco Rasma e Luigi Stoisa, anch’essi cultori di immagini surreali e ambigue che attingono icasticità da un passato atavico.
Circondarsi in studio di corna, legni e pelli per Marcovinicio rappresenta un rituale antico, da sciamano, come è stato ipotizzato da alcuni. Lo potremmo definire un “novello Segantini”? Marcovinicio si riconosce nel maestro del Maloja, ma con i dovuti distinguo: “Condividiamo il tema delle montagne, ma la mia visione contiene la consapevolezza di un paradiso perduto, ci dividono cento anni e più di storia”. Segantini dipingeva il mondo che si apriva davanti al suo sguardo, Marcovinicio vorrebbe entrare nello stesso mondo di luce e colore, ma vi rinuncia perché si rende conto che non esiste più.
“Agli steccati in legno si sono sostituiti i tralicci in ferro e acciaio”, osserva. Polemico e “dannato” nella sua ricerca incessante, rievoca brevemente gli esordi che gettano luce sul suo percorso artistico: “Ero molto giovane quando a Modena nei primi anni Settanta volli comprare il manifesto di Joseph Beuys ‘La rivoluzione siamo noi’. Ai miei occhi l’artista tedesco, con i suoi atti di forza, incarnava una figura epica. Scoprii così il concettualismo e nacque in me l’istinto provocatorio. Si pensi a quando in una mostra alle mie opere sostituii foto in bianco e nero delle opere stesse: un modo per rimettere in discussione il concetto di quadro e accendere la curiosità. Scoprii poi l’Espressionismo tedesco e i Nuovi Selvaggi che avevano ciò che oggi manca oggi all’arte contemporanea: forza e follia. Infine la svolta nel 1985 alla prima Biennale dei Giovani Artisti a Barcellona, dove mi confrontai con altre realtà europee: giorni incredibili”.