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“Monica”, la terza donna. A Venezia Andrea Pallaoro completa la sua trilogia al femminile

Trace Lysette
Monica (Trace Lysette), Paul (Joshua Close) e Laura (Emily Browning) in una scena di Monica (2022) di Andrea Pallaoro

Si intitola Monica il terzo film di Andrea Pallaoro, che torna in concorso a Venezia dopo Hannah (2017), la cui attrice protagonista Charlotte Rampling si era aggiudicata la Coppa Volpi. Per la terza volta su tre – il suo lungometraggio d’esordio si intitolava Medeas (2013) ed era parzialmente ispirato all’omonima figura della mitologia greca – Andrea Pallaoro inserisce al centro della narrazione una figura femminile.

Questa volta il regista trentino, volato negli Stati Uniti a 17 anni e lì rimasto, decide di mettere in scena la vicenda di una donna trans, Monica, affidando il ruolo a Trace Lysette, che dopo alcuni ruoli cisgender (dove cis è il contrario trans, ovvero la persona che si sente a proprio agio con il sesso e il genere che gli sono stati attribuiti alla nascita) aveva fatto coming-out nel 2014, recitando la parte di una donna trans nella serie tv Amazon Transparent.

Una storia universale

Scritta con Orlando Tirado, la storia è quella “universale” di un ritorno a casa. Monica, che vive a Los Angeles, riceve una telefonata dalla cognata Laura (Emily Browning). Venendo a sapere che la madre Eugenia (Patricia Clarkson), malata di cancro, sta morendo. Tra frequenti e disperati messaggi lasciati in segreteria all’ex-fidanzato Jimmy che non vuole più vederla, la donna si trova quindi a fare i conti con il proprio passato: dal fratello Paul (Joshua Close) che rimane a bocca aperta davanti al suo nuovo aspetto, alla madre che non la riconosce e la crede una badante chiamata per sostituire Leticia (Adriana Barraza), donna sudamericana che la assiste da anni.

Il regista Andrea Pallaoro sul set con Trace Lysette

Se da un lato il film presenta un ritmo non incalzante, con alcune sequenze che non incidono quanto vorrebbero, Monica riesce nel non scontato compito di dipingere un affresco della transessualità, evitando di trattarla con superficialità e al tempo stesso di trasformarlo in un racconto morboso. Grande merito va dato a Lysette che, forse facilitata dall’aver vissuto l’esperienza raccontata nel film sulla propria pelle – era stata consulente per the The Danish Girl, storia di una delle prime donne trans sottoposte a operazione chirurgica, presentato a Venezia nel 2015 –, restituisce un ritratto delicato e mai banale della protagonista.

La regia di Pallaoro

La regia di Pallaoro, coadiuvata dalla luminosa fotografia di Katelin Arizmendi, agisce per sottrazione. Impiega dialoghi scarni e spesso sussurrati, accompagnati da inquadrature strette – il formato in cui è girato il film è quasi quadrato, 1.2:1 –. Ravvicinate ma spesso sfuocate, in cui il volto di Monica è ripreso da angolazioni insolite, nello specchietto di un’auto, da dietro. In punta di piedi, la donna si approccia al proprio passato da estranea. Il film lascia molto del passato della famiglia di Monica all’immaginazione dello spettatore. Non si menziona mai la figura del padre, ma questo non porta particolari problemi alla narrazione. La stessa scena in cui presumibilmente la madre riconosce finalmente la figlia, grazie agli eloquenti sguardi dell’ottima Clarkson che sembrano chiederle perdono per averla rinnegata anni prima, non ha bisogno di parole per descrivere l’accaduto.

Trace Lysette è la prima attrice trans ad essere in concorso a Venezia, in un film che offre una prospettiva nuova ed intima della transessualità. Al ritorno da un appuntamento finito male, Monica si sdraia accanto alla madre, rannicchiata in posizione fetale. Senza clamore, la protagonista fa rientro in una famiglia che fino a quel momento non era mai stata la sua. L’America, che quasi non appare nel film, si manifesta nel finale quando il nipotino canta timidamente l’inno nazionale al saggio scolastico. A incoraggiarlo prima di salire sul palco è Monica, finalmente consapevole di sè dopo aver essersi riconciliata con la propria identità.

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