Da Porta Venezia a Lambrate, fino a ICA, ecco che cosa si serve nella stagione fredda dell’arte a Milano, tra collettive e duetti che sorprendono
Pittura. Pittura in tutte le forme. Le tendenze del mercato globale dell’arte, tra perenne aria di crisi e voglia di ricominciare, non si smentisce nemmeno in questo nuovo inizio d’anno.
La scena di Milano non fa eccezione, con una serie di belle mostre rigorosamente in “bidimensione”.
Abbiamo ricominciato l’anno con l’esposizione dei trent’anni di galleria di Monica De Cardenas, con la quale abbiamo chiacchierato di questo traguardo in una intervista che potete trovare qui, e che per l’occasione ha messo in scena il best of dei suoi artisti, tra cui Alex Katz e Stephan Balkenhol.
E c’è pittura anche a ICA, con la nuova mostra dell’artista keniota Chemutai Ng’ok (1989), a cura di Chiara Nuzzi e realizzata con il supporto di T293 e 22 Contemporary. Qui, al primo piano della Fondazione, una serie di opere – di cui diverse realizzate per l’occasione – riflettono sul rapporto tra corpo privato e collettivo, tra folla e individualità, dove la figura umana – ci ha raccontato l’artista – talvolta ha bisogno di aggrapparsi ad un ideale supporto per evitare di lasciarsi trasportare dal vento: un vento di ritorno a vecchie e pericolose ideologie, per esempio. Olii su tela, chine su carta, alcune dal profondo sapore orientale, a causa di un tratto leggero e dai colori acquarellati, che potrebbe davvero trarre in inganno rispetto all’identità geografica dell’artista. “An impression that may possibly last forever”, un’impressione che potrebbe durare per sempre è il titolo della mostra di Chemutai Ng’ok, decisamente in linea -visivamente e poeticamente- con le sue forme turbinanti.
Al piano terra, invece, Riccardo Benassi propone una nuova versione di Morestalgia, la “pittura-led” attraversabile che vuole evocare quel sentimento nostalgico caratteristico dell’era post-internet, di guardare alle vite degli altri, alle quali le nostre aspirazioni tendono, mischiate con una sorta di invidia, nell’inutile tentativo di replicare un modello che non è nostro per supplire alle mancanze che invece sentiamo appartenerci. In mostra anche il video Morestalgia Alpha1, dove l’artista “coordina” una intelligenza artificiale nel realizzare una pittura che è l’espressione delle impossibilità, delle cadute, dei gesti errati che da sempre contraddistinguono l’arte.
“Duetto”, che mette in dialogo la produzione degli anni ’80 e ’90 di Giuseppe Chiari (con alcuni pezzi degli anni ’70) e il giovane fotografo Luca Massaro, da viasaterna, è senza dubbio la mostra più originale che ha aperto a Milano negli ultimi giorni. E, da non sottovalutare, allestita con rigore a creare un dialogo ideale perfetto tra i due protagonisti. Si poteva scivolare in qualsiasi angolo e invece i lettering estrapolati dalla realtà di Massaro, insieme agli spartiti di Chiari e ad alcune delle sue più celebri frasi (Se questa è arte tu sei pazzo, ad esempio) formano un’armonia inaspettata e che rimanda quasi indietro nel tempo, alle tipografie e ai caratteri a piombo. Affascinato dalle insegne al neon, Massaro ha riprodotto anche il celebre logo-intestazione del quotidiano La Notte, installandolo all’ultimo piano del palazzo di via Leopardi 32: una riflessione al crepuscolo sulle percezioni che l’immaginario crea, fondendo ricordi che qualcuno non ha vissuto in prima persona, per questioni anagrafiche, ma che si mischiano con la nostra storia sociale, popolare e culturale.
Nel suo “Progetto per fontana e altre figure” Flavio Favelli, in mostra da Francesca Minini, distribuisce nello spazio una serie di opere eterogenee, tra cui due lampadari in vetro di murano sorretti da una impalcatura-palco, una serie di quadri-specchi rovesciati, a ricordare una pittura informale, e il progetto per una fontana – appunto – in quella che sarà la casa-museo dell’artista, sui colli bolognesi. Qui di pittura, in effetti, ce n’è poca, ma oltre alle opere ci sono le parole dell’artista in una conversazione con Francesco Stocchi, in grado di spazzare via le nubi sull’identità “sociale”, terapeutica, “utile” e mansueta, che oggi si riserva all’arte: “Recentemente, da più parti, c’è questa spinta ad ammantare l’arte sia di sacro che di uno spirito positivo e quindi di “giusto” e di questo non vedeva l’ora la politica e gran parte della società che ha sempre vissuto l’arte moderna come una scocciatura […] Qualsiasi progetto, in tempo di “populismo reale”, deve sottostare a questa nuova legge che seduce artisti e amministratori: bisogna accontentare tutti”.
Ancora una volta, così, Favelli scontenta chi va alla ricerca di “un tema” o, peggio, di un’idea dell’arte accondiscendente in qualsiasi senso, ben ascrivibile nel confine tracciato della verità propagandata. D’altronde, come scrive Favelli citanto Franco La Cecla, l’artista è il “contrario”, colui che ancora dovrebbe far comprendere che le regole possono essere trasgredite. Dovrebbe.
Di contraddizioni si parla anche da Ribot, che presenta il giovane brasiliano Guilherme Almeida, nella mostra “Que seja o reflexo”. Almeida indaga la condizione della negritudine con spirito sottile: i suoi ritratti mostrano persone sorridenti, lontanissime dall’idea propagandata dai media delle persone di colore come criminali, trafficanti o tutt’al più poveri e disperati. Con piglio pop Almeida rappresenta amici, famigliari e personaggi famosi della cultura brasiliana e internazionale uniformandoli attraverso la dentatura d’oro, metallo simbolo di schiavismo e sfruttamento e allo stesso tempo elemento primo, e universale, per dichiarare il proprio status symbol e il proprio riscatto sociale.
Da Renata Fabbri è invece in scena la mostra “Your Payment Veryfication Code Is 26QNFLU9” di Ana Cardoso, i cui quadri sono combinazioni scultoree dove la pittura diventa codice e scrittura per indagare anche i prodromi della storia dell’arte contemporanea, seguendo idealmente quel punto, linea e superficie di Wassily Kandinsky. Come in una combinazione numerica, o come in un laboratorio scientifico, Ana Cardoso estrapola uno ad uno i codici che compongono l’atto del dipingere e li propone allo spettatore sotto la forma di una pratica in divenire: non una pittura chiusa, terminata nella dimensione del quadro, ma una dimensione combinatoria di forme che si snoda nell’ambiente, e di segni che si confondono e differenziano nell’area della tela. Generando “un dialogo con il passato e, al tempo stesso guardando ad essi come nuovi alfabeti, veicoli di sperimentazione romantica, luogo di incidenti, interrogativi, contaminazioni, incontri”.
“Se il paesaggio è simbolico” è invece la nuova, rarefatta, mostra che propone Boccanera Gallery, curata dall’artista Linda Carrara. “Erosione, sedimentazione, liquidità diventano mezzi della materia artistica come i quattro elementi sono l’essenza della natura, senza concentrarsi sull’immagine finale ma prendendo vita da quegli stessi processi naturali che diventano co-autori dell’opera”, scrive Carrara nel testo che accompagna le sue opere insieme a quelle di Fabio Roncato, Giuseppe Adamo, Silvia Giordani, Vera Portatadino e Lorenzo di Lucido. Tutte portano con sé un’idea di paesaggio, un momento quotidiano, dalla notte alla luce, un pensiero intorno alla dimensione magica dell’universo
Da Prometeo invece la questione, pur rimanendo legata al corpo fisico, si fa politica: “You owe me one” mostra ciò che resta delle performance (video, fotografie, oggetti) delle artiste Maria José Arjona, Regina José Galindo, Silvia Giambrone, Maria Evelia Marmolejo e Mary Zygouri che raccontano come lo logiche di potere si insinuano e corrompono la natura umana. E così si sceglie, come antidoto alla spersonalizzazione o peggio alla violenza istituzionale e istituzionalizzata, di ritornare alle origini, di denunciare il presente, per far si che il corpo che abitiamo torni ad essere soggetto e non oggetto di manipolazioni.