Ma davvero la scrittura morirà? Anzi, sta già cominciando a morire, come sostiene Silvia Ferrara, docente di Filologia micenea e Civiltà Egee all’Università di Bologna, coordinatrice di un gruppo di ricerca che studia la nascita della scrittura? Tra cento anni non ci sarà più, dice lei, «ci saranno voci, immagini, immagini e voci. La scrittura, fissa e rigida, astratta e geometrica, diventerà un dinosauro da teca di museo. Tracce che rimangono impresse come tradizione storica, scritte su qualche foglio al macero, perse tra i bit di archivi digitali presto obsoleti. Forse diventeremo telepatici e comunicheremo senza scrivere»
A pensarci adesso viene da star male, soprattutto se uno ha vissuto con la scrittura. Philip Roth in un suo libro, Operazione Shylock, associa le proprietà pittoriche e la magia ricombinatoria della scrittura alla gioia pura. La forza che deriva dalla proprietà del linguaggio è «un piacere corroborante», tale da «espandere così dinamicamente i limiti della coscienza».
Scrivere è una magia imperfetta, perché ha bisogno di un suo ritmo e di un suo tempo, conserva uno spazio di pensiero, un passaggio che richiede comprensione e ricerca, ed è in quell’interrogarsi il suo fascino e la sua forza. Noi oggi viviamo in una società grafomane, che dà la scrittura scontata, come la parola. Ma è questa la sua debolezza. Le cose scontate, quando sono delle invenzioni, sono destinate a morire.
In Svezia pochi anni fa hanno fatto un sondaggio, chiedendo di elencare le cento scoperte più importanti dell’umanità. Per gli adolescenti, gli uomini e le donne del futuro, la prima è il computer. La scrittura non è neanche nelle cento. Eppure essa non è radicata nella nostra genetica, come la voce, e quindi la parola. E’ un prodotto artificiale, una invenzione persino recente, perché gli esseri umani l’hanno creata circa cinquemila anni fa, in parti diverse del mondo. E cinquemila anni sono pochi, pochissimi, in termini geologici e culturali. I primi disegni, le prime figure, datano 45mila anni fa. Ci sono voluti quarantamila anni per trasformare i segni in parole scritte, dargli un ordine logico, un alfabeto. Da allora a oggi le immagini e la scrittura hanno vissuto percorsi paralleli e incrociati, a seconda dei momenti, per arrivare fino ai giorni nostri, quando non si è mai scritto così tanto nella storia dell’umanità. E allora come è possibile che proprio adesso cominci il suo declino? Proprio per questo motivo, perché è al suo apice, e nello stesso tempo, attraverso internet, ha già iniziato a mostrare la sua debolezza, a comunicare attraverso i segni, le figure, i video e le fotografie.
Le immagini invece conquistano sempre più spazio e potere. E guardate, se cambia il nostro modo di esprimerci cambia anche l’arte, che è un mezzo di comunicazione, di memoria e di progresso. Le immagini, comunque, di strada ne hanno fatta tanta, da quando Platone scriveva che «sono buone per confondere le idee, e non per chiarirle». Forte di questa convinzione, escludeva gli artisti che creavano immagini dal suo stato ideale, poiché le loro illusioni erano nemiche della verità. Non la pensava certamente così Aristotele, secondo il quale i triangoli e i quadrati aiutano a sviluppare un pensiero logico come quello della geometria, e in ogni caso linee, colori e volumi sono funzionali anche alla filosofia. Per Plinio il Vecchio invece l’immagine serve a sostituire, ricordare e conservare. L’imperatore Augusto ne fece poi un uso strategico, imponendo un sostanziale cambiamento nella mentalità collettiva. Dal culto del sovrano eletto dagli dei, al programma di grandiose opere pubbliche fino alla campagna di rinnovamento religioso e morale, Augusto crea un nuovo linguaggio visivo e fa di Roma un luogo di immagini che rimanda a un mondo che non è mai esistito, chiamando i poeti più amati, come Virgilio, a fissare con la parola scritta la leggenda della sua era. In questo frangente le due espressioni dell’arte viaggiano insieme.
Non sarà la stessa cosa nel Medioevo e nel Rinascimento, quando la pittura e la scultura sostituiranno la parola scritta a tutti gli effetti, raccontando con le immagini la Voce del Signore che il popolo non è in grado di leggere. Dopo l’Unità d’Italia, l’analfabetismo ha ancora numeri impressionanti: nel Mezzogiorno, gli analfabeti rappresentano l’87 per cento della popolazione con la punta più alta in Sicilia dove raggiungono addirittura l‘89 per cento. Ma anche in Emilia Romagna toccano il 78, in Toscana il 74, nelle Marche e in Umbria l’83 e l’84. Con il Novecento e l’espandersi dei regimi, ci si rende conto che la trasmissione del potere ha bisogno soprattutto di espressioni visive. Il cinema e la televisione dimostrano ancora oggi che le immagini hanno un loro forte potere di convincimento.
C’è da non sottovalutare una importante componente psicologica alla base di tutto questo. Le immagini in effetti contano più di un testo non solo perché «il nostro sistema nervoso alloca più risorse alla visione rispetto al linguaggio», come spiega bene lo psicologo Antonio Zuliani, «ma anche per il fatto che siamo meno portati a mettere in discussione le immagini rispetto a frasi che descrivono la medesima situazione». La superiorità delle immagini rispetto al testo si spiega con la possibilità di acquisire informazioni attraverso gli occhi senza uno sforzo cosciente e anche considerando che il linguaggio si è evoluto in un periodo di tempo molto breve in confronto alla nostra capacità biologica di interpretare uno stimolo visivo. E tutto questo serve a capire la funzione delle immagini parlanti. Perché poi è arrivato il ciclone internet. Per qualche tempo mail, sms, tweet, e alcune funzioni dei social network hanno segnato un ritorno della parola scritta nella comunicazione, ma nel futuro la componente visiva della nostra cultura è destinata solo ad aumentare.
Il centro di ricerche di Alcatel Lucent ha analizzato che i consumatori americani nel 2020 guardavano in media 7 ore di video al giorno, con una crescita impetuosa in pochi anni, di 2,2 ore in più. Lo studio sostiene poi che i siti web e i social network si integreranno sempre più con la funzione video, in un prossimo universo dei nuovi media che sarà sempre più dominato dall’immagine. In questo processo anche il linguaggio subisce una evoluzione evidente. Un tempo gli antichi egizi comunicavano attraverso i geroglifici, e oggi, in un mondo così interessato dai flussi globali, certi simboli sono diventati comprensibili da tutti, come l’emoticon di Whatsapp che ride o piange.
Le emoticon nacquero nella fantasia del fisico Scott Fahlman. Un giorno del 1982 mentre era in vena di scherzi il professore di informatica della Carnegie Mellon University raccomandò ai suoi allievi di leggere alcune combinazioni di segni, che sono oggi a noi molto note, per distinguere messaggi seri e ironici, le cosiddette faccine. Senza saperlo aveva inventato le emoticon rivoluzionando il nostro modo di comunicare. Le emoticon hanno poi viaggiato dagli Usa al Giappone e si sono trasformate in emoji, a loro volta evolutesi nel tempo fino ad arrivare al punto di riuscire a esprimere sentimenti che possono sostituire il linguaggio alfabetico. Oggi si sono diffuse già altre varie culture simboliche, dove solo quelli che vi appartengono sono in grado di capire il messaggio da codificare. Un po’ come le lingue di Paesi diversi.
In questo mondo affollato di immagini, la scrittura rischia di far la fine dei giornali di carta, che sopravvivono ancora per pochi anni fino a quando non sparisce la generazione che li compra e li legge ancora. Ma il dominio della tecnologia della comunicazione e la sovrabbondanza di informazioni visive non emarginano in un angolo solo la scrittura. Il senso della parola è quello per cui l’abbiamo inventata, il bisogno di lanciare un ponte agli altri, nello spazio e nel tempo, di non restare soli, persino stranieri a noi stessi. Perdere la parola significa perdere tutto ciò. È questa la vera condanna che ci aspetta nel futuro e che racconterà l’arte, facendosi largo nella bulimia di immagini in cui rischiamo di annegare. La nostra solitudine.