Una nuova analisi trasversale sugli interrogativi sollevati dagli ormai diffusi aumenti dei biglietti di ingresso ai musei
Che il prezzo dei biglietti del Guggenheim di NY sia salito a 30 dollari è ormai sulla bocca di tutti. Il salato rincaro – del 20 % in più rispetto al costo precedente – è in linea con altri musei americani come il Met e il Whitney. Anche se negli Usa il museo più caro al momento è l’Art Institute di Chicago, che con le sue collezioni enciclopediche, da maggio 2023 costa ben 32 dollari per i non residenti dello Stato. Nelle tensioni finanziarie scaturite dalla pandemia, nell’aumento dei costi operativi e nelle difficoltà dovute all’aumento di gestione sembrano risiedere le ragioni principali di questo cambiamento.
In molti si domandano se sia giusto, attuando un paragone con i prezzi del Louvre (ingresso gratuito fino ai 26 anni, 17 euro per gli over 26) o dei musei italiani (ingresso gratuito all’Hangar Bicocca, al Museo Boncompagni Ludovisi, alla Galleria Nazionale di San Luca, e in alcuni giorni del mese anche al Colosseo, alla Reggia di Caserta, al Museo Napoleonico, al Museo Hendrik Christian Andersen, al Museo Mario Praz e al Castello Sforzesco). È vero anche che entrare agli Uffizi costa 26 euro (più quattro euro di prenotazione). Tuttavia ai Musei Vaticani 17 euro sembra un prezzo adeguato alla quantità di meraviglie che custodiscono. La Pinacoteca di Brera chiede 16 euro, e al Mann di Napoli con 23 euro si può pianificare una visita di due giorni.
E le chiese?
Le questioni in gioco sono molte. Alla “teoria dei musei gratis per tutti come è per le biblioteche”, si contrappone l’idea che i musei offrono un’esperienza unica mentre le biblioteche un servizio permutabile (prospettiva opinabile se però si considerano manoscritti rari o unici come quel singolo dipinto originale che si può vedere in quell’unico museo). Al commento del Ministro della Cultura Sangiuliano sull’aumento del biglietto per gli Uffizi – “ciò che ha valore va un po’ pagato” – fa da contraltare una riflessione ulteriore. Perché non calcolare l’irregolare gestione dell’ingresso nelle nostre preziose e ricchissime chiese italiane, i cui dipinti e affreschi valgono quanto o più di quelli che un fruitore può contemplare varcando la soglia di un celebre museo? Non c’è infatti alcuna regolamentazione al riguardo.
Mentre alla Cattedrale parigina di Notre Dame il costo d’ingresso è di 8,50 euro, minori esclusi, alla Basilica di San Pietro, laddove si possono ammirare la pietà di Michelangelo, il noto Baldacchino con colonne tortili del Bernini, la cupola affrescata da Botticelli, Perugino, Ghirlandaio e Michelangelo, la statua in bronzo di San Pietro e la sua tomba, si entra sempre gratis. Per non parlare di San Luigi dei Francesi o di Santa Maria del Popolo, protettrici di splendidi dipinti di Caravaggio; o di San Pietro in Vincoli che accoglie entro i suoi ambienti il Mosè di Michelangelo e moltissime altre chiese romane nelle quali c’è traccia dei più grandi maestri della storia dell’arte. Da qualche mese invece piazza della Rotonda è diventata una sala d’attesa all’aperto per le code di turisti in fila davanti al Pantheon, il cui ingresso, prima gratuito, vale ora 5 euro.
Dichiarazione dei redditi
È vero che un luogo di culto non dovrebbe richiedere denaro a chi vi fa ingresso. Eppure c’è anche chi a ragione sostiene che le opere d’arte conservate nelle chiese richiedono anch’esse grande manutenzione. Infatti mentre la Città Eterna – e se si vuole anche eternamente arretrata – è Mamma Roma e accoglie chiunque senza cipiglio monetario, a Venezia l’ingresso in quasi tutte le chiese costa almeno 3 euro, tanto che esiste una tessera, il Chorus Pass, abbonandosi alla quale si possono avere ingressi facilitati. In tutto questo, però, viene da chiedersi: i soldi, poi, dove vanno a finire? Servono realmente per supportare l’arte?
Sarah Fox, la portavoce del Guggenheim di NY, ha spiegato che l’aumento dei prezzi dei biglietti museali servirà a sostenere mostre di grande livello, un’esperienza di qualità per i visitatori e l’accesso scontato o gratuito per un pubblico economicamente più svantaggiato. Si farà dunque all’ingresso una dichiarazione dei redditi? E ancora ci si può domandare: in questo modo l’arte sta diventando più elitaria o più popolare? E cosa significa, se dovesse essere così, che l’arte si fa popolare? Che i Musei si impegnano a diffondere mostre low brow, indirizzate al medio pubblico borghese?
Arte per il popolo
Qui Gillo Dorfles mette in luce una utile distinzione tra arte del popolo (folklorica, artigianale) e arte per il popolo (arte pop), che nasceva e nasce da meandri tutt’altro che popolari “avendo molti addentellati con i prodotti dell’industria”. Alcuni ritengono inoltre che al valore cultuale dell’arte corrisponda un valore monetario della stessa. Altri sostengono che il rincaro dei prezzi per le visite nei musei non abbia senso. Si tratta dunque si una questione di senso o di necessità? Chi fruisce l’arte esclusivamente come tale spesso non considera i dietro le quinte economici. Gli stipendi dei dipendenti, la manutenzione delle opere e degli ambienti oltre che tutte le altre voci (promozione, didattica, aggiornamento e così via).
Resta che, al di là delle chiacchiere da bar, ribasso e caro prezzi hanno da sempre a che fare con certi moti ondulatori dell’economia mondiale che travalicano i confini dell’arte. Durante queste impennate torniamo ad accorgerci così – come destati da un sonno meditativo, arcadico – che l’arte non è un’isola, o meglio che l’arte è un’isola in mezzo a molte altre isole. E se l’arte va eternata allora sembra che vada anche pagata.