Dice un detto cinese: “Ogni cosa, piccola o grande, è infinita”. Ovvero ogni elemento, anche il più apparentemente insignificante, ha un potenziale di grandezza e una profondità senza limiti. Un concetto che Wallace Chan, artista filosofo, sente profondamente suo
Lo incontriamo in occasione della mostra The Wheel of Time, a Londra, nella sede di Christie’s, in King Street. Si è trattato della più grande rassegna dell’artista in Europa, in cui sono state esposte opere (in gran parte prestate dai suoi maggiori collezionisti) che ne riassumono l’attività degli ultimi cinque decenni.
“Mi muovo in delicato equilibrio tra il tangibile e l’elusivo, il visibile e il nascosto”, racconta l’artista, che con la sua barba da antico saggio e le abilità creative e tecniche di un moderno alchimista, fonde con disinvoltura canoni estetici cinesi e occidentali. Il suo studio-laboratorio a Hong Kong, con estensione sulla terraferma per le produzioni più grandi, è l’antro delle meraviglie dove materiali grezzi si trasformano in opere d’arte. Chan non trasforma il metallo in oro, anche perché preferisce il titanio. Leggero, acceso da infiniti arcobaleni di sfumature. E le pietre preziose e semipreziose, i cristalli di rocca e la porcellana.
Molto riservato, Chan accenna appena alla sua vita privata. Nato in Cina nel 1956 (ma non ci sono documenti certi, forse era il 1955) di famiglia modesta, si trasferisce a Hong Kong dove comincia la sua avventura. Nel 1973 diventa apprendista intagliatore di pietre preziose e nel 1974 fonda già un suo laboratorio. È l’inizio di una carriera intrisa di ricerca. Tra le tappe fondamentali, l’invenzione del “Wallace Cut”, nel 1987. Una speciale tecnica di incisione tridimensionale, che lo consacra maestro scultore e per la quale inventa speciali strumenti modificando gli utensili usati dai dentisti. O la Wallace Chan Porcelain, cinque volte più resistente dell’acciaio, messa a punto in sette anni di studio, ma risultato di un processo ben più lungo che affonda le sue radici in un ricordo lontano quando, bambino, mandò in frantumi un cucchiaio di porcellana e fu per questo punito. “Siamo tutti il prodotto della nostra infanzia”.
Ogni pezzo è la conseguenza di un pensiero, di una storia. Chan li considera addirittura un autoritratto o la metafora del processo creativo. Così, per esempio The Legend of the Colour Black: una spilla caratterizzata da un diamante nero – il più grande del mondo – fornito da un suo collezionista. Una pietra misteriosa, senza luce, come se contenesse nulla e tutto. “Per questa opera mi sono ispirato alla sinfonia di neuroni con la quale comincia la vita, come se il cuore del diamante contenesse un’ode ai futuri potenziali pensieri e consapevolezze. Sotto il diamante ho inserito una struttura di cristallo come se fossero lo yin e lo yang”.
Chan spazia dall’infinitamente piccolo (grazie a potenti lenti di ingrandimento) all’extra large: “La grandezza dell’universo e dell’esistenza può risiedere nei dettagli più minuti, in una continua interconnessione tra microcosmo e macrocosmo”. Ecco allora creazioni frutto di oltre una decade di lavoro, come il Secret Abyss, un quarzo al cui interno sono inseriti 1.111 minuscoli smeraldi, a comporre una nuvola.
Ma anche le grandi sculture in titanio – i Titans – materiale che usa ugualmente per le sue iconiche farfalle. È votato al lavoro e la famiglia ne risente (da lungo tempo è divorziato) ma la febbre che lo arde è più forte. “Sogno, quindi esisto. Creo, quindi sono vivo”. Quando muore improvvisamente il suo mentore Mr Lin, a Taiwan, sprofonda in una grave crisi esistenziale, che lo porta a un ritiro di sei mesi, viaggiando con il suo maestro -un filosofo cinese – e incontrando persone diverse, di città in città, tra Cina, Taiwan, Thailandia e Usa. Una forma di meditazione sul significato della vita, sull’illusione del tempo che abbiamo a disposizione. Motivo di dedizione monacale al lavoro. Perché se la ruota del tempo è spietata, però “i miei lavori mi sopravviveranno”.