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Fabio Mauri, o la profezia dello schermo

Fabio Mauri, Amore Mio, 1970, © Estate Fabio Mauri, Photo: Elisabetta Catalano
Nel 1957 Fabio Mauri dipinge un acquarello. È un acquarello sui generis, nessun colore, nessun paesaggio, nessun volto. Nero su bianco. Fabio Mauri incastona il foglio, in una spessa cornice nera. Abbiamo detto che è il 1957, esattamente 63 anni fa, Fabio Mauri dipinge l’Ipad.
Fabio Mauri, Schermo-Disegno Orizzontale-Verticale, 1957, tempera su tela

Questo è il suo primo schermo. Con un anticipo impensabile, in pieno boom economico, momento in cui il cinematografo, così si chiamava allora, inizia a espandersi e a prendere luogo nelle città italiane, nella Roma divina, a Mamma Roma, tra le Vacanze Romane, Fabio Mauri che lì vive e frequenta gli artisti intorno alla galleria la Tartaruga, comprende per primo la portata straordinaria dell’arrivo dello schermo nelle nostre vite.

Lucio Fontana, nello stesso periodo, la tela la sfonda con un taglio – lo stesso che Truman esegue alla fine di Truman Show – mettendo fine alla quarta parete e mostrandoci il mondo così com’è. Agli antipodi Mauri, preveggente come lo è stato per il viaggio sulla luna, e qui potremmo tirare in ballo Melies, ci mostra lo schermo nudo.
Un nuovo dispositivo. Il dispositivo. Che nessuno si era accorto che esistesse, perché l’attenzione è sempre stata, ed è, rivolta a quello che sul dispositivo avviene. Ai contenuti.

Fabio Mauri, Amore Mio, veduta della mostra da Hauser & Wirth, Zurigo

Io stessa in questo momento sto scrivendo su di un dispositivo retroilluminato e probabilmente voi state leggendo su di un dispositivo retroilluminato. Lo schermo è diventato, nello spazio di 60 anni, il dispositivo su cui scorrono – vogliamolo o no – la creazione, la comunicazione, il business, l’intrattenimento e certamente molto di più, della nostra vita.

C’è un computer che comunica con noi attraverso il suo schermo, in ogni edificio, in alcuni casi in ogni stanza, in altri casi parecchi computer in una sola stanza e, state a sentire, uno schermo in mano a quasi ogni persona nel mondo.
Ci sono aziende che riescono ancora a vendere questi schermi a carissimo prezzo e umani che ci credono e pagano e guerre che si combattono per i metalli per produrre e far funzionare questi schermi che hanno una obsolescenza programmata. Pratica questa nata solo ultimamente, l’ultima frontiera del capitalismo a corto di idee ma grande, enorme, produttore di spazzature.

Ma torniamo a Fabio Mauri e lo schermo. Mauri è il primo in assoluto a intuire la prossimità dello schermo alla vita, la sua incredibile possibilità di espansione, la sua totale capacità di mimetismo insieme alla portata storica del cambiamento che avrebbe introdotto e per primo lo rende un oggetto per così dire domestico, un quadro, un’opera d’arte. Lo schermo e non la superficie della tela, messa certamente in discussione dai suoi contemporanei, Fontana, Castellani per esempio, a definire quello che è e che non è.

Fabio Mauri, Amore Mio, veduta della mostra da Hauser & Wirth, Zurigo

Vito Acconci disse che l’arte concettuale è quando usiamo concetti, le idee, invece del pennello. Ecco Mauri è il primo – e forse l’unico artista finora – a intuire l’enorme spazio che lo schermo occuperà, il controcanto alla realtà, a inserirlo nel reame dei concetti, a fare di uno strumento un’opera d’arte, a mostrarci la luce solida o addirittura lo schermo che piange. Mauri, come artista, non c’e mezzo che non prenda in considerazione, uomo dalla mente fertile, versatile e rigogliosa. Rigoroso e fervido nell’analisi del presente, impeccabile e algido nella perfezione della sua vasta produzione, esteta fino all’estremo, asceta – siate parchi era il suo invito a tavola e geniale nelle sue intuizioni.
Ironico ed elegante, frainteso anche, tacciato di fascismo quando il suo intento era l’opposto, la denuncia.
Mauri è un artista freddo ma densamente magmatico proprio come lo schermo è emblematico di questa solo apparente doppiezza. Supporto e contenuto. Senza l’uno, l’altro non esiste, non ha senso. E Mauri, rigoroso, filosofico, tecnico quasi, va a parare senza sconti, sull’importanza del supporto.
Sul suo contributo molto molto fondamentale. E, senza sconti, lo mette al centro della sua ricerca, ce lo presenta così com’è, coi mezzi a lui coevi, tuttavia preciso, estremamente preciso e con pochi tratti d’acquarello nero avvia la rivoluzione.

A Zurigo fino al 22 dicembre c’è una sua personale da Hauser and Wirth, “Amore mio”, soprattutto di schermi.

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