L’artista Bruno Ceccobelli individua delle fasi alchemiche “cruciali” per comprendere quella Storia dell’Arte che lui intende come essere Trascendentale
“Bisogna saper perdere, bisogna sapere perdere…” questo ritornello lo cantava il complesso di capelloni The Rokes nel 1967, al Festival di San Remo… e se per ognuno di noi la miglior vittoria per essere più “veri” non fosse il successo pubblico, ma il “saper perdere”?
Qualche bambino bamboccione, spesso già anziano, mi dice: “Tu parli di Dio e di spiritualità in arte… allora perché Dio non si dà da fare per i Palestinesi per far cessare il loro genocidio?”. Sono ancora molti i succubi di un Dio cattolico antropomorfo e imbelle!
Allora, qui capisco, che la nostra misera religione, i filosofi deboli e nichilisti e la cultura laica con le sue ideologie politiche materialistiche, hanno fallito nella loro missione: la costruzione di una “Civiltà Occidentale” sana e vivibile; solo gli Astrofisici e l’Arte Astratta hanno difeso il senso infinito del sacro.
Questi post-umani razionali, nati solo per favorire il capitalismo, sono pericolosi deserti ambulanti, con cervelli sabbiosi, vagano come dune al vento, senza essersi mai capiti e senza aver raccattato un briciolo di sale… in zucca, cianciano il nulla sul niente, senza una concezione prospettica; questi umani solo di nome, sono saprofiti amorfi, si attaccano alle notiziole dei media ripetendole a pappagallo, nell’inesauribile ipocrisia del “pensiero unico”.
Questo deterioramento post-moderno cognitivo, o a breve termine, è il risultato della dromocrazia*, solo “pensieri” periodici senza che esistano tra loro riferimenti meditativi; i post-umani digitali vivono le info per caso, senza conoscere o approfondire le precedenti storie peculiari, le radici, per capire sul serio la realtà… “eh ma mica si può “sprecare” tempo andando indietro!”.
Invece di conoscere i nostri avi ci trastulliamo con i nostri simulati futuri… Avatar.
Viceversa gli individui più sensibili, gli artisti creatori, detti anche i curiosi**, insomma tutti quegli idealisti romantici, sono mossi da presenti e spontanei afflati poetici, celestiali, si lasciano andare facilmente a raggianti riflessioni, libere, cioè ad espressioni astratte.
Riflessioni fenomenologiche, idiosincrasie, fuori dal tempo, Akashiche*** , che accadono a tutti quelli che hanno sperimentato, almeno una volta, un tempo sospeso, un Assoluto, per via di un vuoto, per una brezza improvvisa, ecco, un brivido, per un sospetto, un ribollire inconscio, insorto da un amore non corrisposto, oppure per un trauma familiare, da un esame fallito, ecco, che si impossessa di noi uno scontento esistenziale, arriva svelto un combattimento interiore, istintivamente una crisi… tutto frana intorno senza soluzione.
Una frattura, uno iato tra l’io indeciso e il molteplice statalizzato, fra il mondo temporale contingente e un anelito di Eternità ; allora spunta in noi l’umor nero, si rompe con sofferenza il bozzolo (il razionale temporale) e… spunta esitante la metafisica farfalla (la psiche, l’anima immortale).
L’umor nero per i greci antichi era nella bile nera e riaffiorava come male ad ogni crisi d’identità, ma per contrappeso, molto spesso, favoriva e favorisce, per fortuna, una sorta di reazione fatale; l’umor nero e la creatività sono il binomio perfetto per la gravidanza di una vera opera d’arte…
Nella mitologia greca Orfeo e gli adepti Orfici rappresentavano gli emblemi di una ricerca essenziale esistenziale individuale, per ritrovare, con infinite vicissitudini in questo e nell’altro mondo “invisibile”, la propria “sposa”, Euridice, che per tutti noi curiosi melanconici singolari, rappresenta la sublime ricerca per “denudare” la nostra amata anima.
Orfeo, figlio di Museo, è un musico e un cantore amoroso, il modello dell’artista sciamano, capace di incantare con suoni armoniosi uomini, animali, piante; poteva animare anche le rocce ed era perfino capace di placare i defunti e di sconfiggere la morte.
Alla fine del suo viaggio nell’Ade, il regno dei morti, dopo aver rivisto la sua sposa Euridice, Orfeo riconquistata la sua “anima” grazie all’amore, ma viene spezzettato dalle feroci Menadi, cioè perde necessariamente il suo stato fisico.
Orfeo dunque, dentro la sua parabola metafisica, “perde” la sua integrità psicofisica nel travaglio tra il divenire del tempo (“oltre” il suo corpo mortale), e la “conquista” della sua consapevolezza superiore, l’anima immortale.
Questa metafora, risvegliandoci, ci consegna la gloria (per chi tiene alla sua meta salvifica, cosa che io ritengo igienica), intonata da quel nostro canto-incanto interiore che richiede prima uno stato depressivo “sacrificale”, per poi aprirci a quell’“oltrepasso” cruciale attraverso il quale si dischiuderà un misterioso intimo stargate verso l’inevitabile nostra poeiesis (l’anima) che per questo (non a caso) è stata pensata in tutti i secoli come la nostra parte più sacra…
Ora chi dubiterà della divinità della “poesia” o dell’immaginazione artistica, colui non sarà certo in grado di sublimare ogni sua “fragilità” comportamentale, allora subito, verrà riportato nel suo Ade, che sarà il suo peggior inferno, il banale quotidiano.
L’Alchimia (dominata astrologicamente dal pianeta della malinconia Saturno) è la scienza della trasformazione in chiarezza della propria salute psicofisica: dal piombo (dall’ignoranza) all’oro (alla coscienza superiore o anima), l’umor nero è considerato la sua “prima fase” detta Nigredo o putrefazione, cioè la fase della “decomposizione” dei corpi … attraverso il fuoco (l’ardore, la passione per la purezza).
Il simbolo archetipale degli alchimisti curiosi è il mitico animale l’Araba Fenice, capace di “risorgere” a vita nuova dalle proprie ceneri, morte e resurrezione; Gesù ci ammonisce “Chi non nasce di nuovo, non vedrà il Regno dei Cieli”.
In ogni novità esistenziale, un’agitazione viva di perdere qualcosa, quella forte sensazione di pericolo che prende una piega ossessiva di disperazione…, se nel cambio di stato l’umor nero persiste diventa quella depressione detta liricamente melanconia.
Alberto Duro, nome italico arcaico del pittore, incisore e teorico spirituale del rinascimento tedesco Albrecht Durer (1471-1528), si interessò all’esoterismo e ai suoi simboli come si evidenzia nella sua opera incisa più ammirata al mondo, realizzata nel 1514, dal titolo Melencolia I.
La narrazione etica della simbologia ermetica che si ritrova in questa celebrata opus magnum dureriana**** è ricca di riferimenti alchemici e trascendentali, composti da principi codificati, usati in una precisa grammatica esoterica che l’artista ben conosceva e praticava nei suoi sublimanti procedimenti creativi.
“Aquesta viva fuente que deseo, en este pan de vida yo la veo, aunque es de noche”. (Questa fonte viva a cui anelo, in questo pan di vita io la vedo, benché sia notte). Così scriveva Juan de la Cruz (1542-1591), maestro della mistica e santo spagnolo, campione della preghiera contemplativa.
San Giovanni della Croce è il patrono dei poeti e dei mistici, fu insieme a santa Teresa d’Avila cofondatore dei Carmelitani Scalzi. Teresa lo chiamò “piccolo Seneca”, si frequentarono, lui più giovane di lei, fu suo consigliere e come lei disse: “padre della sua anima”.
Nella sua radicale aspirazione al cammino in un’ascesi spirituale, Juan, poeta di Dio e teologo, patì nei suoi ritiri tremendi digiuni ascetici e depressioni, insieme a varie sofferenze fisiche. La sua più nota poesia “In una Notte Oscura” è il canto lieto della sua anima, che travestita da “sposa”, mentre i suoi sensi dormono, ascende alle agognate nozze con Dio; ecco la sua esegesi: “L’anima che vuole salire sul monte della perfezione (il Monte Carmelo) deve rinunciare a tutte le cose”, un’ispirazione cristiana apofatica, non definibile a parole, ascesi ripresa dal domenicano Meister Eckhart (1260-1328), ma anche, incredibilmente molto vicina alla filosofia taoista.
A causa delle sue estreme esternazioni poetiche- estatiche, Juan fu incarcerato e torturato dal suo stesso potere ecclesiale; dopodiché nell’ultima parte della sua vita fu abbandonato definitivamente anche dai suoi confratelli più stretti, morì piagato e magro a soli 49 anni.
FUENTE è il titolo dell’esibizione internazionale collettiva svoltasi ad Amsterdam nel 1991 in piazza Dam nella Nieuwe Kerk, la grande Basilica gotica accanto al Municipio, mostra dedicata alla celebrazione dei quattrocento anni dalla morte di Juan de la Cruz e in memoria della sua vocazione al misticismo.
Nel catalogo che accompagnò la mistica esposizione “Fuente” (un tomo di 340 pagine, libro teoretico d’Arte Trascendentale sull’esperienza del sacro nell’arte contemporanea), sono riportate le opere degli artisti presenti con i loro relativi scritti e i testi di critici e di intellettuali internazionali consoni e “coinvolti” dal pensiero mistico di Juan de la Cruz.
Tra quei preziosi testi, particolarmente mi hanno colpito sia un bellissimo scritto del popolare artista Antoni Tàpies, che così scrive: “La riflessione interiore non è un’attività elitaria, ma piuttosto illumina la nostra scala di valori, gli standard che utilizziamo per risolvere i problemi e le reali ingiustizie della vita quotidiana che ostacolano il nostro sviluppo dell’essere umano nel nostro tempo”; e sia quello del grande Miguel de Unamuno (1864-1936) filosofo di Salamanca, che in un suo verso poetico dedicato a Juan, afferma: “Il tuo canto rilassa la nostra mente, il tuo riempimento nutre la nostra ragione”.
Quella ricorrenza storica mi fece riflettere che a volte le opere d’arte per alcuni artisti mostrano la vera emanazione della loro anima (avere un’anima! Che fortuna è, per colui che si accorge di averla), perciò quelle opere d’arte animose non sono, e non potrebbero mai essere decorative.
Parimenti posso dire che una “vera” opera d’arte è un’“anima” che ci disincarna per via dell’estasi che ci induce per via della sua vertigine (Luce e Grazia), mostrandoci il bello stabile.
In conclusione dobbiamo fare rivoluzioni guerrafondaie ogni giorno contro tutto e tutti, senza sapere chi siamo, e cosa abbiamo noi veramente “dentro”, oppure invece sarebbe più salutare smascherarci con una propria profonda introspezione, quella rivoluzione interiore, contro di noi stessi che ci induce fortunatamente a saper perdere i nostri abiti convenzionali ideologici, purificandoci dalle nostre mancanze.
In un giorno di sole, grazie ad un curioso individuale “raggio-coraggio”, oltre la malinconia, con un gesto d’amore verso la nostra vera essenza, volendo pacificarci così con gli altri e il mondo, scopriremo quella pratica per rinascere da “dentro”, che i filosofi chiamano maieutica, per una reale rivoluzione, per una mistica metanoia!
*Dromocrazia tesi del 1977 di Paul Virilio “…è il governo della velocità… si estende il tempo… avanziamo verso un futuro senza avvenire… ma privo di meta… atleti del nulla…”.
**Nel Settecento si diffusero “Accademie dei Curiosi” come per esempio l’Accademia Leopoldina: studiosi umanisti, così pure esoterici e alchimisti che consideravano la curiosità una virtù ed erano utilizzati nelle corti europeee per stupire dignitari e ambasciatori con i loro “cabinets des curiosités”.
***Akashiche è un termine sanscrito per definire le memorie universali senza tempo che raccolgono il sapere universale, detti Registri Akashici inerenti all’Akasha, l’anima.
****Nell’incisione Melencolia I vi appaiono un angelo melanconico nelle tenebre, con in mano un compasso (colui che sarà un’artista, se opererà la sua opus magnum, potrà svelare la propria anima, con rettitudine, simboleggiata dal compasso), la cometa (l’annuncio di un cambiamento), l’arco baleno (i colori delle fasi alchemiche), il “quadrato magico” (nel quale la lettura di tutte le cifre in tutte le direzioni danno la somma 34, di cui la somma teosofica dà il numero 7 simbolo del maestro, utile per apprendere), gli attrezzi da falegname (il lavoro umile da svolgere con pazienza), il cane smilzo ai suoi piedi (rappresenta la materia che si deve sottomettere fedelmente), c’è poi una clessidra (il tempo che ci vuole non conta), una bilancia (per temperare bene le operazione alchemiche), un putto diligente, seduto su una ruota di pietra, una macina (l’innocenza e il disinteresse ideale, da far ruotare raffinandosi), un crogiolo (l’alchimia), la scala (sono i gradini del trapasso verso il trapasso, una comunicazione con il divino), il martello (per scolpire la pietra, il carattere), il poliedro (il nostro fisico che deve essere mantenuto perfettamente in regola retta), il pipistrello (la speranza di passare dalle tenebre alla luce), il lago (tanta umidità, i sudori e le lacrime delle sofferenze per il duro lavoro da compiere per riuscire nell’Opus Magnum).