Abbiamo cercato di mettere in scena la regressione che avviene nella mente umana durante i periodi di crisi. Voglio però sottolineare come i protagonisti, anche quando compiono scelte sbagliate o irrazionali, stiano facendo del loro meglio. Questo si applica anche alla nostra realtà: nonostante la crisi climatica il consumismo è alle stelle, volano più aerei di quanti non ne siano mai volati. Ma stiamo comunque facendo del nostro meglio. Per questo perdono tutti i personaggi così come chiunque altro”
Sono queste le parole con cui Thomas Vinterberg – regista danese tra i fondatori del movimento cinematografico Dogma 95, candidato all’Oscar per la miglior regia nel 2021 grazie al suo ultimo film “Un altro giro” – chiude la conferenza stampa di “Families Like Ours”, la sua prima serie tv presentata all’81esima Mostra del Cinema di Venezia. Il film – lo stesso regista racconta di essersi approcciato a questo prodotto televisivo come a qualsiasi altro suoi precedenti lungometraggi, con le uniche differenze di una durata nettamente maggiore e di una suddivisione in sette episodi – si sviluppa da una domanda semplice: cosa succederebbe se un paese come la Danimarca fosse costretto a ‘chiudere’ per sfuggire all’innalzamento del livello del mare?
“L’idea è nata sette anni fa, quando uno scenario simile sembrava pura fantascienza. In Danimarca “Families Like Ours” debutterà in ottobre: per allora i campi saranno coperti da più acqua di quanta ne avremmo mai potuta aggiungere con gli effetti speciali che abbiamo usato nel finale”, aggiunge Vinterberg. Il regista di Copenaghen non lascia alcuno spazio ad avvenimenti apocalittici: nonostante l’ineludibile crollo dell’economia danese a seguito dell’annuncio del Primo Ministro riguardo all’espatrio senza ritorno che attende la popolazione, l’unico dramma su cui si sofferma la cinepresa è umano.
Seguiamo così le vicende di alcuni nuclei famigliari, accomunati dalla sventura ma ognuno unico nella diversa risposta che dà di fronte alla vera sfida che viene posta loro davanti: la sopravvivenza. Racconta l’attrice e moglie del regista Helene Reingaard Neumann: “La parola ‘crisi’ è centrale per la narrazione: non solo per i risvolti distopici a cui il film ci mette di fronte, ma anche per la sua etimologia greca di ‘separazione”, a cui fa eco il disgregamento della famiglia di “Families Like Ours”, costretta a trovare rifugio nelle più disparate zone d’Europa.
È forse questo il merito maggiore di quest’opera, che sfrutta la sua lunga durata per dedicare il giusto spazio ad ognuno dei protagonisti, in un ritmo perfettamente cadenzato dove nulla è superfluo. “L’intera narrazione si potrebbe riassumere in un concetto: la casa che abitiamo è in fiamme, dobbiamo andarcene e dobbiamo farlo ora. Non c’è spazio per riflettere su come si sia arrivati a quel punto, è una questione di pura sopravvivenza”, commenta l’attore Nikolaj Lie Kaas. Impressiona vedere il ribaltamento delle logiche migratorie cui siamo abituati, con gli abitanti dal Sud del pianeta che cercano di raggiungere i Paesi del Nord nettamente più agiati, che a loro volta cercano di limitare gli accessi alle proprie frontiere. Qui i cittadini della fino a quel momento fiorente Danimarca non sono visti di buon occhio, quasi a ricordarci di come nessuna condizione sia permanente.
In “Families Like Ours” il grido d’allarme per un futuro molto più probabile e vicino di quanto ancora accettiamo di credere è evidente, eppure la cinepresa di Vinterberg, pur mettendo in evidenza la natura ambigua dell’essere umano – allo stesso tempo vittima e primo responsabile del proprio destino – non esprime giudizi negativi sui personaggi: “Una cosa che amo è che anche quando i personaggi si lasciano influenzare dalla paura, comportandosi in modi che non avrebbero potuto nemmeno immaginare in circostanze normali, per lo spettatore sono sempre chiare e perfettamente comprensibili le ragioni che si nascondono dietro le loro scelte”, prosegue Lie Kaas.
Se il film da un lato si risolve quindi in una serie di episodi tra di loro non collegati, che porterà ognuno dei protagonisti a costruirsi una nuova identità che li faccia a sentire “a casa” nel momento in cui quella che avevano fino a quel momento abitato non esiste più, dall’altro innalza uno specchio di fronte al quale lo spettatore non può che riflettersi, provando la più profonda empatia per una schiera di personaggi che “fanno del loro meglio” per non scomparire, lottando per sopravvivere sia come individui che come custodi di un piccolo frammento di memoria collettiva che altrimenti sparirebbe.
Vinterberg è maestro nel mettere la propria assoluta sensibilità registica al servizio della narrazione, lasciando che le speranze dei protagonisti diventino le nostre e viceversa: “Quando mia moglie ha letto la prima bozza della sceneggiatura mi ha chiesto se soffrissi di depressione. Ho quindi deciso di aggiungere alla storia una dose di speranza, resilienza e coraggio che prima era del tutto assente. Oggi posso dire che questi elementi sono quelli che apprezzo di più nel film”. E noi con lui.