
Courtesy dell’Artista e Hauser & Wirth, 34 3/4 x 24 inches (frame size), 88.3 x 61 cm
Giuseppe Iannaccone nato ad Avellino, avvocato di professione, cultore d’arte per passione e collezionista per vocazione, dagli anni settanta a Milano, nel 2023 apre il suo studio legale ai giovani artisti e lancia la sua fondazione in corso Matteotti 11 (piazza San Babila), con questa mostra “Da Cindy Sherman a Francesco Vezzoli: 80 artisti contemporanei”, a Palazzo Reale, stringe con la sua città ideale uno scambio tra pubblico e privato, e debutta come mecenate, condividendo con i milanesi e curiosi di diversa provenienza 140 opere mai esposte prima.
Otto anni dopo l’esposizione in Triennale, incentrata sugli artisti italiani del Novecento, l’avvocato espone a Milano una parte della sua prestigiosa collezione. Iannaccone inizia il suo percorso collezionistico negli anni ottanta, puntando sull’arte moderna italiana, in particolare quella degli anni trenta e quaranta, con opere di quel periodo storico in bilico tra classico e moderno. In seguito il collezionista si è naturalmente avvicinato all’arte contemporanea, una evoluzione naturale data la sua curiosità intellettuale per capire i cambiamenti culturali e sociali attraverso l’arte sempre in dialogo tra presente e passato.
La mostra è parte del programma di Milano Art Week 2025, promossa da Comune di Milano, Palazzo Reale e Fondazione Giuseppe Iannaccone, con la produzione esecutiva di Arthemisia, a cura di Daniele Fenaroli con il supporto scientifico di Vincenzo De Bellis, è suddivisa in undici sezioni – troppe a dire il vero, alcune si potevano accorpare per associazioni narrative e tematiche -, è una immersione nell’arte dagli anni settanta ad oggi, concepita come un diario visivo che esplora le difformità del nostro tempo intorno al tema dell’identità, rappresentazione del corpo, multiculturalismo e identità di genere inclusa.

L’esposizione è accompagnata da una installazione sonora per pianoforte a parete, synth e samples, dal titolo “Possiamo andare da un’altra parte?” a cura di Dario Mangiaracina (La Rappresentante di Lista), e sala dopo sala scoprirete opere ammantate dall’oscurità, che rispecchiano gli interessi e il gusto del collezionista, che narrano le storie personali degli artisti emergenti e di fama internazionale, offrendo attraverso immagini diversissime una panoramica sulla contemporaneità.
Percorrendo l’esposizione si evince che l’arte italiana, passando da Luigi Ontani a Wangechi Mutu o Raqib Shaw, è connessa a quella globale, aldilà di confini generazionali, geografici o culturali, e rappresenta lo sguardo aperto e poliedrico dell’avvocato sul nostro mondo sempre in divenire.

La mostra funziona per associazioni, simboli e corrispondenze di opere di artisti di differenti generazioni e provenienze, e questo taglio “prismatico” sulla complessità della contemporaneità, ruota intorno non a una identità ma diverse, intrecciando relazioni tra visioni differenti su nuclei tematici volti all’introspezione e all’indagine delle dinamiche in relazione alla società e allo sfaldamento di archetipi culturali. Bisogna andarci con il desiderio di immergerci in una realtà distopica ma coerente al tema, onirica e affascinante che mette in discussione il cliché del corpo e della bellezza.
Il corpo, il ritratto sono generi legati alla tradizione e all’innovazione, nel presente aprono riflessioni sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale, i diritti civili e rappresentano la libertà di esprimersi superando barriere culturali mescolando tradizione e innovazione.
Il viaggio dentro la contemporaneità inizia con la sala monografica dedicata a Cindy Sherman e suoi Untitled Film Stills degli anni settanta, 6 opere con una varietà di personaggi che esplorano il concetto di identità e la rappresentazione del corpo femminile intrappolato nel desiderio maschile. Queste immagini ci permettono di ripensare canoni, visioni, sguardi e attese. In questa prima sala si passa dalle opere iniziali Untitled #130 (1983), alla serie Fashion, in cui Sherman esplora i cliché della bellezza femminile nella pubblicità di moda. Spiccano Untitled #555 (2010/2012) quelle della serie Clown, con volti dal trucco eccessivo e parrucche che fanno tenerezza, amplificano il disagio del ruolo del clown e, paradossalmente del nostro ruolo nella società, aprendo riflessioni sulla complessità della costruzione di un io privato e sociale non sempre allineati in diversi contesti culturali.

Seguono come un fiume in piena le opere di Nan Goldin, Francesco Vezzoli, Lisetta Carmi, Lisa Yuskavage, Piotr Uklanski, Grayson Perry, capace di ritrarre i disagi e le incongruenze della nostra società. Tammy Nguyen e Roberto Cuoghi indagano concetti di metamorfosi, Tracy Emin tratta la vulnerabilità femminile, Shadi Ghadirian riflette sulle restrizioni culturali e le tensioni del mondo islamico, Hayv Kahraman e Hiba Schahbaz affrontano il corpo come spazio di memoria. Tra gli altri Hernan Bas, Nicole Eisenman, creano un dialogo sul corpo, sulla fluidità, mentre Marinella Senatore, Adrian Paci, Massimo Bartolini e Hannah Quinlan, esplorano esperienze collettive e l’evoluzione dei ruoli sociali. Queste e altri artisti indagano l’identità come processo di autenticità, ponendo al centro il ritratto umano; un genere classico legato alla committenza e rappresentazione dello status sociale, e il corpo nell’arte contemporanea strumenti espressivi soggettivi in rapporto alla società.
Volti e corpi, generi tradizionali che ri-trattano l’identità, trasformazione e ripresentazione di sé mostrano una dimensione altra in bilico tra naturalezza, inquietudine, autenticità e artificialità.
E in questo fitto intreccio di linguaggi, approcci e visioni dentro il nostro tempo, con opere di Francesco Gennari, Elizabeth Peyton, Paolina Olowska, Jon Currin, Michael Borremans, Marcello Maloberti, Victor Man, Catherine Opie, Rineke Dijkstra, Liu Xiaodong e Juan Munoz, l’uomo entra in relazione con l’inconscio e con il mondo animale, come svela l’immaginario di Paola Pivi, che utilizza la figura dell’animale per sovvertire canoni e meravigliare lo spettatore.

Anche le opere di Allison Katz, Pietro Moretti e altri artisti intrecciano narrazioni tra loro. I dipinti a muro prevalgono, poche le sculture, sono indimenticabili quelle di Kiki Smith, Giulia Cenci, Nathalie Djurberg & Hans Berg e Kiss (2001) di Marc Quinn in marmo di Carrara che affronta temi legati all’inclusione, alla diversità e alla rappresentazione del corpo. Fluttuando tra le sale oscurate gli spettatori la mostra si chiude con le opere di Laura Owens, Patrizio Massimo, Margherita Manzelli e tanti altri con corpi ritratti nell’intimità, sospesi tra fragilità, allegoria, mitologia e realismo, all’insegna di un immaginario per lo più onirico e straniante.
L’allestimento fitto di opere affastellate tra loro, non permette di soffermarci sui dettagli di ogni singola opera, perché ciascuna immagine è carica di significati, simboli e associazioni culturali che annullano la barriera tra passato e presente.
In mostra osserviamo corpi non necessari, volti performativi, creature ibride reali e immaginarie, figure in progress di creature dall’identità metamorfica, passate al setaccio da cosmesi ad alta tecnologia, in bilico tra esotismo, manierismo, erotismo sublimato, profetizzano un’alleanza tra uomo, natura e tecnologia, ma chissà poi cosa diventeremo!
Il corpo del nuovo millennio è un sofisticatissimo progetto di design, quasi robotizzato, che realizza forme variabili dell’identità e look, con l’ausilio dell’Intelligenza Artificiale. Soprattutto è lo strumento per esibire e affermare la propria identità nel Beauty hi-tech business in cui non c’è confine tra naturale e artificiale; e il corpo nell’arte contemporanea ci rispecchia e smaschera l’io ipertrofico di una società individualista, sterile e narcisista, in cerca di chissà quale umanità.