
Alzi la mano chi, da bambino, non aveva una di quelle baracche di legno dietro casa, costruite con due pannelli storti e la convinzione che potessero bastare a tenere fuori il mondo. Ecco, vi vedo. Questa è la storia giusta per voi. The Shed di John Robinson è una mostra appena approdata tra i canali di Venezia, e al suo interno c’è proprio lui: il famigerato capanno. Ma non è un semplice riparo. È un’esposizione, una trappola per lo sguardo, una specie di confessionale senza penitenza.
Ci si arriva attraversando i Giardini, mentre la città brulica per l’apertura della Biennale. A pochi passi dalle architetture planetarie, ci si imbatte in questa struttura nomade — un’anticamera dell’inconscio travestita da opera d’arte. Robinson l’ha costruita originariamente nel suo orto, nel Worcestershire, e poi l’ha spinta in viaggio: Rotterdam, e ora Venezia. Lo ha fatto con la stessa ostinazione con cui uno scrittore si porta dietro il taccuino ovunque — non per scrivere, ma per non dimenticare.
Dentro The Shed, il pubblico è insieme protagonista e vittima. Robinson non dipinge soggetti scelti a distanza: li cattura mentre partecipano a performance intime, spesso imbarazzanti. Una festa di compleanno rievocata come un sogno sbiadito, letture di tarocchi con carte disegnate da lui, e un live painting in cui i visitatori diventano — letteralmente — carne da tela.
Non è autoritratto, non è finzione. È qualcosa che si muove a metà tra le due: come una crisi d’identità davanti allo specchio. A guardarli, i suoi quadri hanno il colore delle vecchie fotografie trovate nei mercatini dell’usato: seppia, bruno, con quella sfumatura densa che sa di ricordo e di muffa. Il linguaggio pittorico è viscerale, impudico, teatrale. Come se ogni pennellata fosse un urlo trattenuto.
Robinson mescola travestimenti, storia dell’arte e cultura popolare. Si infila tra Velázquez, i selfie deformanti e le maschere da circo. In ogni quadro, una domanda sospesa: chi sono, quando nessuno mi guarda?

Chi partecipa alla performance diventa parte di quello che l’artista definisce un “fallimento orchestrato”. Un esperimento psicologico in cui il confine tra chi guarda e chi è guardato si dissolve. Il disagio — quella sensazione urticante di trovarsi fuori posto — è la vera materia prima. Robinson non vuole che tu ti rilassi. Vuole che ti vergogni, che sbagli postura, che ti chieda se hai davvero il diritto di stare lì, in quel preciso momento, tra il pennello e la tela.
Dietro tutto questo, c’è una visione lucidissima del nostro tempo. Un’epoca in cui la maschera — digitale, sociale, emotiva — è diventata la vera pelle. E togliersela significa, spesso, sanguinare.
The Shed si trasforma così in una chiesa laica e portatile, dove il rito non è la messa, ma l’arte stessa: praticata come catarsi, come sfida. Robinson è uno che ci crede. Formatosi a Falmouth, poi a Madrid con la Richard Ford Scholarship, ha assorbito i fantasmi di Goya e la regalità distorta di Velázquez. Ma quello che accade a Venezia ha poco a che vedere con l’accademia. Qui si parla di vulnerabilità, di performance che non finiscono con un applauso ma con un rossore sulle guance.
La mostra è visitabile fino al 19 luglio, negli spazi della galleria 10 & ZERO UNO. E ogni tanto, in certi giorni, il capanno si anima. Appaiono le performance. Le persone si siedono, si fanno leggere il futuro. Vengono dipinte. E nel tempo necessario a stendere un volto su una tela, si accorgono che non era il futuro che cercavano, ma un modo per abitare — finalmente — un presente più autentico.
Chi entra in The Shed, ne esce un po’ più nudo. E questo, oggi, è forse l’unico vero lusso rimasto.














