
Disegni che non finiscono mai. Cielo, terra, cavalli, gauchos, volti, frutti, gambe, animali, volti che escono da animali, città, finestre infinite, grattacieli o pampa. Colore, in tutti i sensi, fitto, fitto, scorrevole, onnipresente, allegro, niente gli sfugge. È magnifico vedere i disegni di Achille Mauri tutti insieme, insieme al documentario girato in Benin per la Rai negli anni ’80, ai libri che ha pubblicato come editore con i multipli di Lucio Fontana ed Enrico Castellani, insieme ai suoi romanzi: Anime e acciughe e Il paradosso di Achille e alle foto delle sue opere di Land Art.
Oltre a una moltitudine di oggetti ricoperti di pelle chiara. Sono bottiglie di Coca-Cola, fruste, taniche, che sotto la pelle bianca si trasformano in oggetti performativi. Conservano ancora qualche impronta del quotidiano, ma diventano misteriosi e ieratici. Una mostra in cui perdersi, che racconta, postumo, il lavoro di un uomo curiosissimo, eclettico ed estremamente generoso. Sempre aperto alle differenze, accogliente, vivace.

L’ultimo di 5 fratelli di una famiglia che darà corpo alla cultura in Italia, Achille Mauri è il più libero.
Il fratello Fabio è già un artista, Luciano dirige le Messaggerie Italiane, la sorella Silvana si dedicherà alla scrittura e Ornella alla musica. A 18 anni, il padre lo destina all’industria.
Dopo quell’esperienza, Achille vivrà la sua vita di editore, produttore, regista e visionario at large, ma sempre rispettando tacitamente l’indicazione paterna. Grazie a sua moglie, passerà molto tempo in Argentina. Solo alla morte dei fratelli ne ha in parte preso il posto, prima guidando le Messaggerie Italiane, poi pubblicando i suoi romanzi ed infine presiedendo lo Studio Fabio Mauri, volto a promuovere e divulgarne l’opera. Viene a mancare nel 2023 in Argentina.

Ora, Achille Mauri, è in scena alla Fondazione Kenta di Milano, con la mostra “Ahead of time”, a cura di Francesca Alfano Miglietti. E l’uomo, e l’artista, in questa occasione ce lo raccontano i suoi figli, Sebastiano e Santiago.
Qual era il rapporto di Achille Mauri con la terra, con la pampa argentina in particolare e con la Land Art?
Nella campagna argentina Achille trovò spazi e libertà difficilmente immaginabili per un europeo. Grande amante dell’arte, non fu una sorpresa quando nel 1999 fece la sua prima opera di land art, un imponente cactus fatto con materiali di riciclo, un pezzo di aratro dismesso e un corpo ovale di cemento.
Da allora ha lasciato nel paesaggio una ventina di opere che dialogano con il territorio circostante, in perpetuo mutamento stagionale. Terra ferita (2011) è composta da un gigantesco coltello in cemento conficcato nel terreno e circondato da soia, mais, grano, a seconda del periodo. Un commento sul rapporto più o meno sano della terra con l’agricoltura circostante che permette sì di produrre molto cibo, ma richiede anche tanto in cambio, in termini di nutrienti. La Matita per disegnare nubi (2012) è invece un’opera poetica in ferro, di una decina di metri d’altezza, una matita bianca appunto, che puntando verso il cielo sembra disegnare le nuvole che vi passano sopra, o talvolta, la luna.
Quali sono i lavori che ha sviluppato in Italia?
In Italia, dove Achille lavorava in ufficio, la sua produzione era concentrata sui disegni. In ogni momento libero, o anche durante le lunghe riunioni lavorative, disegnava incessantemente. Spesso tornavano i temi argentini, pampa, cavalli, alberi, gauchos, ma anche paesaggi metropolitani in cui gli animali facevano capolino inaspettatamente. E tante persone, di ogni possibile etnia, a testimoniare il suo amore per la varietà umana e tutto ciò che era diverso da lui. Alla sua morte abbiamo potuto constatare che non solo ha conservato con grande cura tutta la sua produzione artistica, ma anche in modo molto ordinato, divisa in cartelle, fatto inusuale per Achille. Quindi oggi ci è chiaro più che mai, quanto fortemente avrebbe desiderato mostrare la sua produzione al pubblico, dopo la sua scomparsa.

Che importanza avevano per lui il contesto e le relazioni?
Achille ha sempre amato conoscere persone nuove, di ogni età, background o cultura. Aveva spesso amici che potevano essere suoi nipoti per età anagrafica, non si è mai fatto intimorire dall’appartenenza a generazioni distanti dalla sua. E questa curiosità verso l’altro è stata la miccia di diversi suoi lavori, a partire da Magia d’Africa, il documentario per la Rai.
Ciò che lo contraddistingueva era proprio la sua capacità di avventurarsi in nuovi territori, l’incessante ricerca del nuovo, dell’inaspettato, la volontà di sfuggire a facili categorizzazioni. La creatività era il carburante in tutto ciò che faceva, anche quando si trattava di organizzare un convegno, una festa o persino un consiglio di amministrazione. Grazie a lui abbiamo capito che essere artisti non dipendeva tanto da ciò che si faceva, ma da come lo si faceva.













