
La direttrice del Museo Civico di Castelbuono racconta la vocazione social-green impressa al suo programma culturale
È un progetto realizzato dagli artisti durante l’anno nel corso di un ciclo di residenze. Con una serie di dieci fotografie e un’installazione sonora allestite nelle Ex Scuderie e nella Torre del Castello dei Ventimiglia. A partire da una coltivazione sperimentale di pomodori di varietà selvatiche e coltivate nell’Orto dell’arte, area verde adiacente al Museo. Gli artisti? Il collettivo Aterraterra (Fabio Aranzulla e Luca Cinquemani). E il progetto – titolo Postvarietal Communities, inaugurazione sabato 13 settembre – è l’ultimo in ordine di tempo programmato dal Museo Civico di Castelbuono.
Un museo che rappresenta un eccellenza per la creatività contemporanea nel cuore profondo della Sicilia. Che sperimenta pratiche di comunità e valorizzazione del patrimonio culturale ispirandosi ad un approccio basato su partecipazione, sostenibilità, innovazione tecnologica. A dirigerlo da oltre dieci anni c’è Laura Barreca, che inaugura la stagione autunnale con questa mostra, dettagliata dal sottotitolo Ecosistemi connessi. Museo e Comunità Post-varietali. Affiancandola con un nuovo allestimento del museo che coinvolge 40 artisti italiani e internazionali e interessa sia le collezioni permanenti che gli spazi storici del Castello. Di tutto questo ci parla nell’intervista…

Il progetto di Aterraterra parte da un gesto apparentemente semplice, come la coltivazione del pomodoro, per innescare riflessioni radicali sull’ibridazione, sul ruolo dell’umano e sul concetto stesso di “natura”. Come si inserisce questa pratica artistica sperimentale nella visione del Museo Civico di Castelbuono?
Nel 2020, proprio nel mezzo della pandemia da COVID-19, con il Museo Civico di Castelbuono abbiamo avviato il progetto “L’orto dell’arte”, un fazzoletto di terra adiacente al Castello dei Ventimiglia (sede del museo), curato e coltivato con la collaborazione di una associazione civica e una comunità di recupero di persone con fragilità, diventato uno spazio pubblico rigenerato a verde, naturale estensione degli spazi interni allestiti, prosecuzione del percorso di conoscenza che immagina il museo come parte di un ecosistema più ampio. Questo spazio è il contesto nel quale si attivano parte delle nostre attività partecipative, curate da Maria Rosa Sossai, e aperte alla comunità. L’idea richiama ovviamente la metafora concepita dal filosofo e paesaggista Gilles Clemént sulla necessità di prendersi cura del nostro pianeta come bravi giardinieri. Se poi consideriamo che i musei oggi sono chiamati ad abbracciare nuove pratiche ispirate ai principi di sostenibilità, consapevolezza e responsabilità sull’ecologia come forma di pensiero, anche attraverso una diversa costruzione narrativa del patrimonio, questo progetto è diventato un asset del Museo.

Quali progetti avete sviluppato in questo ambito?
Nel corso degli ultimi cinque anni abbiamo realizzato progetti artistici, incontri, laboratori educativi, passeggiate pubbliche per sollecitare il pubblico sulle questioni ambientali. Questo approccio richiama l’idea del museo come foyer d’expérience (Foucault), uno spazio in cui l’esperienza diventa condivisa, in cui la comunità partecipa attivamente a processi che uniscono dimensione creativa, sociale ed ecologica. In questo contesto il progetto a cui abbiamo lavorato con gli Aterraterra rappresenta un manifesto della visione del Museo Civico di Castelbuono, perché fa della coltivazione del pomodoro il punto di partenza di una riflessione radicale all’interno della pratica museale e in generale della produzione culturale.

Si parla di un “sistema produttivo di ecosistemi” che entra a far parte della collezione permanente. In che modo un organismo vivente e mutevole come questo può essere considerato un’opera museale? Come si gestisce la sua conservazione e fruizione nel tempo?
Su un sistema semplice fatto di legno e spago, progettato con la collaborazione dell’architetto Elena Catalano e con un artigiano locale, si aggrappano comunità post-varietali di piantine di pomodori coltivati e selvatici, che hanno dato origine a una specie ibrida ottenuta da semi scelti dagli artisti anche per la loro resistenza ai cambiamenti climatici. Anche questo sistema produttivo entra nella collezione permanente del museo, quale espressione del superamento di nozione di opera come oggetto immobile. Questa struttura rappresenta non più l’oggetto-feticcio conservato nelle sale di un museo, ma un toolkit, un dispositivo propedeutico allo sviluppo di un piccolo ecosistema vivente che appartiene tanto al museo, quanto alle persone che attraverso un processo di cura, ne garantiranno la sopravvivenza. Un impegno etico e simbolico da condividere anche con altre istituzioni culturali, per formare una rete di ecosistemi connessi in cui – con un po’ di utopia – immaginiamo i musei come protagonisti di una condizione di cambiamento.

Hai dichiarato che “ripensare la produzione culturale in funzione ecologica” è una direzione precisa del Museo. Quali sfide comporta questa scelta, soprattutto all’interno di un’istituzione pubblica?
Se è vero, come si chiede lo storico dell’arte americano Steven Conn, che i “musei non hanno più bisogno di produrre oggetti”, ne consegue un’estensione di possibilità creative anche al di fuori del museo; significa investire su attività complementari. Ad esempio negli ultimi due anni abbiamo sperimentato il format “Le passeggiate dell’invisibile”, percorsi nella natura alla scoperta del territorio e del parco delle Madonie, accompagnati da artisti, musicisti, performer, esperti botanici e guide locali, per sollecitare una relazione dentro l’ambiente naturale, ma in forma creativa, parimenti alla tradizionale visita dentro il museo: un innesto tra museo, persone, territorio e creatività contemporanea. Pratiche artistiche sperimentali come questa rafforzano il processo di responsabilità sociale attraverso il museo-dispositivo, inteso come un ecosistema culturale, un luogo in cui non solo si preserva il patrimonio in vista della sua trasmissione al futuro, ma si abita un pensiero innovatore e riformante in dialogo con la comunità e con le sfide ecologiche che stiamo attraversando.
Il nuovo allestimento del museo coinvolge 40 artisti italiani e internazionali e interessa sia le collezioni permanenti che gli spazi storici del Castello. Come avete costruito il dialogo tra l’arte contemporanea e l’architettura monumentale del museo?
Negli ultimi anni il Museo Civico di Castelbuono ha consolidato l’impegno costante nella valorizzazione e nella cura del proprio patrimonio attraverso residenze, committenze pubbliche, interventi site-specific e percorsi educativi condivisi con la comunità, e nel corso degli anni Duemila, grazie a residenze d’artista, donazioni, collaborazioni con istituzioni nazionali e internazionali, con il mondo accademico, e con il supporto del Ministero della Cultura, la collezione del museo si è arricchita di nuove produzioni. Le opere della collezione sono quindi espressione di un dialogo sperimentale tra artisti e patrimonio storico, sociale e culturale di Castelbuono, e in molti casi sono state realizzate anche con la partecipazione attiva della comunità. La collezione riflette la speciale relazione con la cultura mediterranea attraverso l’uso dei linguaggi artistici contemporanei, tra cui installazione, pittura, scultura, disegno, fotografia, cinema, teatro, video, arte digitale, di artisti e artiste che hanno avuto un dialogo col territorio, come Salvatore Arancio, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Mimmo Cuticchio, Claire Fontaine, Francesco De Grandi, Beatrice Gibson, Loredana Longo, Emiliano Maggi, Mangano & van Rooy, MASBEDO, Melo Minnella, Concetta Modica, Maria Domenica Rapicavoli, Sandro Scalia, Giulio Squillacciotti, Luca Trevisani, Ionee Waterhouse.

L’attenzione all’accessibilità e alla mediazione dei contenuti nella comunicazione museale è un elemento che avete particolarmente curato: QR code, didascalie semplificate, percorsi per bambini. Che tipo di pubblico volete raggiungere, e come viene coinvolta la comunità locale?
Il concetto di accessibilità museale, come sappiamo, oggi riguarda la possibilità, per tutte le persone, indipendentemente dalle loro abilità fisiche, sensoriali o cognitive, di accedere ad ambienti, fruire di beni e partecipare ad attività in maniera autonoma. Per garantire queste condizioni, il progetto di riallestimento che abbiamo realizzato negli ambienti architettonicamente connotati del Castello dei Ventimiglia (sede del Museo Civico) è stato concepito con la cura congiunta di Valentina Bruschi, con AM3 Architetti Associati e con l’apporto interdisciplinare delle figure responsabili per la comunicazione, l’educazione, i progetti partecipativi del museo: una collaborazione allargata per rispondere al meglio alle esigenze relative alla leggibilità degli spazi e dei contenuti: a partire dalla disposizione delle opere, dal posizionamento dei pannelli didattici “ad altezza bambini” con formule di mediazione linguistica che facilitano il dialogo con i visitatori, e poi ancora QRcode con approfondimenti audio-video, interviste agli artisti, testi digitalizzati di approfondimento, indicazioni iconografiche per una migliore individuazione delle opere. Un apparato-dispositivo che permette di sperimentare nuove opportunità di scoperta delle opere all’interno del percorso museale.

L’acquisizione delle fotografie di Lisetta Carmi restituisce una visione intima e potente della Sicilia. Come si colloca questo nuovo nucleo all’interno del percorso del museo?
Le fotografie di Lisetta Carmi, scattate nel 1977 durante il suo reportage “Acque di Sicilia”, rappresenta un significativo arricchimento per la collezione permanente del Museo Civico di Castelbuono. Paesaggi, volti, luoghi ritratti in bianco e nero in contesti sociali rurali, cristallizzati nel tempo, sono metafora di una modernità mancata tra attaccamento alle tradizioni e l’anelito verso un cambiamento irrealizzabile. Le sette fotografie acquisite dal Museo offrono uno sguardo intimo e autentico su un’isola in trasformazione, evidenziando la capacità dell’artista di connettersi empaticamente con i soggetti ritratti, sia donne che uomini, ma anche oggetti e spazi comuni.
Quali valori ha portato con sé questa operazione?
L’acquisizione, ottenuta grazie al sostegno dell’avviso pubblico Strategia Fotografia 2022, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, e con la disponibilità dell’Archivio Lisetta Carmi, si inserisce in un percorso più ampio del Museo Civico nell’ambito della fotografia contemporanea, ospitando mostre e acquisendo opere di autori e autrici siciliani di rilievo come Letizia Battaglia, Melo Minnella, ma anche di fotografi contemporanei come Sandro Scalia e Francesco Bellina. Attraverso queste iniziative, il museo continua a esplorare e documentare l’identità mediterranea, e promuove una riflessione sulle trasformazioni che hanno segnato il paesaggio umano e sociale nella storia contraddittoria della seconda metà del Novecento in Sicilia.

Negli ultimi anni il Museo Civico di Castelbuono si è trasformato in un presidio culturale attivo, con una forte vocazione partecipativa e un impegno verso l’ecologia, la contemporaneità e la comunità. Che cosa significa oggi per te dirigere un museo civico, in un contesto come quello di Castelbuono?
Da diversi anni, il Museo Civico di Castelbuono è impegnato non solo in attività di tutela e valorizzazione del patrimonio, ma soprattutto attraverso l’adozione di strumenti partecipativi rivolti ai pubblici che “abitano” il territorio e frequentano il museo, cerca di essere attivo e partecipe nella vita della comunità. Lavoriamo con le scuole, con il corpo docente, abbiamo attivato un dialogo con la Consulta Giovanile locale e lavoriamo con gli artigiani di Castelbuono. Mi piace pensarlo come un museo in ascolto, che ha l’ambizione di estendere la sua agency, ovvero la sua capacità di essere propositivo nel contesto sociale, per raggiungere o intercettare situazioni che per ragioni diverse sono escluse dalla partecipazione culturale. Nel 2020 abbiamo creato un dipartimento Progetti partecipativi affidato alla cura di Maria Rosa Sossai che svolge un lavoro di tessitura di relazioni e di dialogo con la comunità. Nello stesso anno abbiamo sintetizzato il nostro pensiero nel “Manifesto dei musei del territorio e dei piccoli borghi”, una dichiarazione elaborata a partire da prospettive interdisciplinari, quali arte, economia della cultura, pedagogia, antropologia.











