Un racconto degli ultimi anni di vita di Pierre-Auguste Renoir, trascorsi dal pittore impressionista nell’isolata residenza di Les Collettes, vicino Cagnes, in Francia. Qui creò alcuni dei suoi capolavori.
Les Collettes. Nella silenziosa immobilità del giardino, magicamente sorpreso nella sonnolenta tranquillità di un pomeriggio di novembre, giunge la rivelazione di un’esuberanza e di una vitalità che non disturba, segno tangibile di una plasticità sana, tranquilla, trionfante. Davanti alla casa-museo, nel breve spiazzo digradante sul mare, viene incontro il bronzo pieno e pesante della Venere Vincitrice, largo bacino, spalle rotonde e un po’ cadenti, questa Afrodite casareccia e molto umana, vittoriosa della singolar tenzone fra Era ed Atena. Il genio di Pierre-Auguste Renoir (Limoges 1841 – Cagnes 1919) cattura il visitatore già qui, prima ancora di entrare in quel sacrario di memorie, l’eremo delle Collettes, la tenuta dove l’artista trascorse gli ultimi anni dalla sua vita e che nella sua carriera rappresenta il “punto culminante della perfetta libertà“.
Sembrerà strano parlare di libertà per un pittore costretto a muoversi, negli ultimi anni, su una sedia a rotelle. Eppure, è questo il periodo in cui, sotto la sorveglianza del puro istinto, meglio può gustare le gioie dell’esperienza. Sono lontani i tempi in cui scriveva (1883): “Si è aperta come una spaccatura nella mia opera. Ero giunto all’ estremo limite dell’impressionismo e constatavo di non saper dipingere né disegnare. In una parola ero in un vicolo cieco“. Allora aveva già consegnato alla storia dell’arte avvenire capolavori come Le moulin de la Galette (1876), La colazione dei canottieri (1881) e quel Madame Charpentier e le sue bambine (1878), che Marcel Proust definì “l’evocazione più perfetta del suo tempo“. A mandarlo in crisi era stato l’incontro con i grandi maestri italiani del Rinascimento, in particolare Raffaello, che lo portò a riconsiderare sotto un’altra angolatura tutta la sua opera.
Furono una crisi ed un incontro fecondi. Era il periodo del predominio della purezza formale del disegno, che tanto piaceva al pubblico; ma Renoir era anche consapevole che, se non poteva permettere alla forma di dissolversi nel colore, altrettanto impossibile era imprigionarla in un contorno. Cercò quindi un compromesso fra le due soluzioni. La sua personale ricerca lo porterà all’applicazione di colori sempre più in trasparenza, a quei toni madreperlacei frutto di piccole pennellate lisce e sfumate dai toni iridati. La plasticità delle figure diventa ancora più esuberante, quasi barocca, i suoi nudi opulenti ricordano la ricchezza cromatica, il trionfo carnale, eccessivo e straripante, di Rubens o di Tiziano.
Tra fiori, paesaggi, frutta e il pensiero a ninfe, naiadi e dee in una Provenza di pini, cipressi, olivi millenari, realizza il mito che l’Italia gli aveva svelato. Nel silenzio e nell’immobilità delle Collettes (dal 1907 e fino alla morte vi si stabilì definitivamente) dipinge col solo movimento del braccio le sue straordinarie Baigneuses (1918-19), Baigneuse assise (1914), Madame Renoir avec Bob (1910), Gabrielle aux bijoux (1910). Le jeunes filles sembrano esprimere qualcosa che le accomuna all’essenza dei fiori e della frutta, si muovono, lente, in un’Arcadia di colori solari tutte prese dalla pesantezza quasi animalesca della loro corporeità, una corporeità sensuale eppure casta, panica, naturale.
Un limite di questo geniale ritrattista della borghesia fine secolo? C’è tutto in Renoir: all’indubbia maestria del tecnico si somma l’esperienza del rivoluzionario che ha dipinto, nella foresta di Fontainebleau, accanto a Sisley, Monet, Pissarro, Cezanne. Per lui ed i suoi amici Louis Leroy coniò, sul Charivari, giornale satirico del tempo, il termine che diverrà poi famoso di “Impressionisti”; la mostra di Boulevard des Capucine, nell’ex studio del fotografo Nadar, (era il 15 aprile 1874), sempre lui scrisse, faceva “drizzare i capelli in testa”.
Tutti i critici dei grandi giornali si scagliarono con violenza contro il gruppo di pittori endépendants definiti “un’accolta di buffoni e di alienati“. Fu il ritratto di Madame Charpentier et ses enfants, la moglie dell’editore di Flaubert e Zola, ad aprirgli definitivamente la via del successo, dopo i brevi, folgoranti anni dell’Impressionismo. I viaggi a Roma, a Firenze, a Venezia, il ricordo della Galatea di Raffaello alla Farnesina e delle Stanze vaticane, lo stile rigoroso dei maestri italiani e la loro strabocchevole stratificazione di cultura lo confermeranno nel suo personalissimo stile di mediazione fra antico e moderno.
La “Maison Renoir” di Cagnes, dove il pittore di Limoges trascorse gli ultimi 12 anni della sua vita, conserva un’importante dotazione dell’opera pittorica, quadri famosi e le cui riproduzioni si trovano nei grandi musei del mondo. Nella sala da pranzo, dal camino in marmo bianco, si possono ammirare tele con i luoghi a lui più cari. La ferme des Collettes, Paysage, Promenade sous bois, nel salotto dominano, barocche e tizianesche, le Grandes baigneuses, Les cariatides, i bronzetti realizzati con l’aiuto di Richard Guino. Ma l’emozione prende forte quando si entra nel grande atelier: ci sono la sua sedia a rotelle, la cassetta dei colori, cornici, sul cavalletto Les roses à la teinture violette, mentre scorre un filmato dove si vedono gli assistenti che gli inseriscono il pennello fra le dita deformate dall’artrosi. Tutto è rimasto così, fermo nel tempo, a suggerire il ricordo del sogno di pace e di armonia realizzato dal grande artista nell’eremo di Cagnes.