Nell’inverno totale del mondo delle arti, a poche settimane dal fatidico dpcm di novembre (con relativa “ovvia” chiusura di mostre, musei e affini), Nicolas Ballario ha aperto la sua piazza, multiforme e dialettica, nel mezzo del palinsesto di Sky Arte. Predicando, nel senso più ampio e favorevole del termine, nel deserto della comunicazione culturale italiana, televisiva in primis. Una “The Square” (le citazioni si sprecano, dalla Palma d’oro di Cannes del 2017 agli omaggi di Albers) spalancata sulle vicende artistiche attuali. Ballario ha fatto una cosa relativamente semplice ma rara nel panorama nostrano: dare spazio e voce ai protagonisti della cultura sul piccolo schermo (saturo di passato, zuccheri e retorica), in maniera assolutamente trasversale, passando dalla lirica alla curatela contemporanea. Aspettando che Franceschini batta un colpo, complice timoroso e passivo dello stallo agonizzante, le “arti” restano chiuse e congelate fino al 15 gennaio 2021, data che però pare slitterà di altre due settimane. Giusto in tempo per permettere al giornalista piemontese di completare le tornate del suo programma (in onda tutti i giovedì di gennaio per ancora 4 puntate), che all’efficace mantra “Io ti vedo, tu mi senti?” con cui introduceva personaggi della cultura via streaming durante il primo lockdown, potrebbe sostituire un secco e ostinato: “Io non ti vedo, io ti faccio sentire.”
The Square. Un programma che “racconta le trasformazioni dell’arte in questo periodo storico”. Sulla tua pelle e per tua esperienza diretta, qual è stata la più palese, macroscopica?
In questo periodo ci siamo accorti che l’esperienza “fisica” con l’arte non è l’unica, ma allo stesso tempo abbiamo capito che è la più importante. Non vorrei dire una cosa banale, tipo che la lontananza fa bene all’amore o che ti accorgi delle cose davvero importanti quando non le hai più, ma spero almeno che finito questo incubo la gente capisca la centralità della cultura. Ognuno deve fare la propria parte in questo senso.
Perché la “cultura” in toto è chiusa? Perché cinema, musei, teatri rimangono sigillati?
Devo dirti la verità: io all’inizio di questo periodo storico mi sono promesso che non avrei fatto polemiche sulle chiusure, ma ultimamente non ce la faccio. L’ultima chiusura dei Musei è incomprensibile e folle. So quanto i musei hanno fatto per mettersi in sicurezza e sappiamo tutti che gli ingressi possono essere contingentati. Perché tenere chiuso allora? Perché hanno paura degli assembramenti durante i concerti e le rappresentazioni teatrali, dato che quelli sono momenti che richiedono uno spostamento di persone tutte alla stessa ora. Per i Musei non è così, ma il Ministro ha adottato la tecnica del mal comune mezzo gaudio, avrà pensato che tenendo chiusi i musei, non avrebbe fatto arrabbiare il comparto del teatro, della musica e del cinema. Una mossa fatta per quieto vivere che però gli si è ritorta contro.
Balsamo della psiche, rifugio, respiro, sublimazione… cosa potrebbero dare e portare i musei aperti in questo momento?
Una cosa molto più semplice: la consapevolezza che siamo persone e non consumatori. Posso andare a comprare un trapano, una bottiglia di vino, un telefono, ma non posso andare nei musei. E dirò di più: le gallerie sono aperte. Giustamente, ci mancherebbe che facessero distinguo anche su questo (e anzi grazie al cielo ci sono i galleristi, che in questo momento tengono vivo anche culturalmente il nostro mondo). Ma l’assurdità è che oggi l’arte la possiamo comprare, ma non guardare.
In generale, qual è lo stato di salute della cultura ora in Italia, in particolare del mondo artistico? Quello che percepisci e puoi raccontarci da una posizione privilegiata, all’interno di quel mondo, che hai toccato con The Square…
Lo stato di salute è quello di un moribondo, che si riprenderà con grande fatica. Però questo mondo non vuole mollare e non mollerà. Ho incontrato in queste settimane decine e decine di artisti e il sentimento è quasi quello di stupore. Quando li chiamo per partecipare sembrano pensare “sul serio? Davvero c’è qualcuno che finalmente ci chiama in TV?”. Ecco, questo è significativo. Per gli artisti avere un programma di attualità culturale che si occupa di loro dovrebbe essere all’ordine del giorno e invece, oltre a noi, vedo poca roba in giro.
The Square è “la casa di chiunque abbia da dire in ambito creativo”. Obiettivi, ospiti e storie che hai raccontato (e che da gennaio tornerai a raccontare)… Dove e a chi vuoi arrivare?
Vorrei far capire che la cultura contemporanea ha tante facce e che non per forza dobbiamo sceglierne una. Passo dall’opera lirica a Francesco Vezzoli, dalla biografia di Federico Fellini a quella di Elio Fiorucci, dalla stand up comedy a Edoardo Nesi che ci parla di Infinite Jest. Questo è il mio obiettivo, cercare di dire che si può ascoltare Rigoletto o guardare8½ e poi fare la classifica delle figuracce durante il lockdown, facendo vedere i giornalisti che senza accorgersene si fanno sgamare mentre trasmettono da casa in mutande (cosa che abbiamo fatto davvero, con Velia Lalli). Fa tutto parte dello stesso contesto, almeno nel nostro mondo le barricate non dovrebbero esserci.
Il mondo della cultura (tra lockdown, quarantene, chiusure necessarie e coatte) si è spostato sui social, Instagram in primis. Dal punto di vista delle arti visive la maggior parte delle proposte sono noiose, inutili e autoreferenziali, realizzate con scarsa consapevolezza del mezzo… Cosa ne pensi della social traslazione e come ti sei mosso di conseguenza in questi mesi?
Allora io devo dire che le dirette le ho fatte fin da subito. Durante il primo lockdown, per due mesi, le abbiamo fatte ogni singolo giorno con Oliviero Toscani. Mi piace farle, sono un bel mezzo, ma è vero che la maggior parte sono davvero autoreferenziali come dici tu. Questo perché spesso nel nostro mondo non si vuole scendere a patti con i contesti. Lo vedo in radio, io sono super aggressivo da questo punto di vista: quando vedo che un ospite comincia con la filippica da conferenza per addetti ai lavori, lo blocco e lo porto a forza sul mio terreno, quello della comprensibilità. Nelle dirette, invece, spesso non c’è chi assolve questo ruolo e quindi sbrodolano, e non li segue nessuno. Ho visto profili enormi fare dirette per 7 o 8 persone, mentre per esempio Art Delivery, che è un serissimo cazzeggio sul mondo dell’arte che io e Giacomo Nicolella Maschietti facciamo ogni due settimane dai nostri piccoli account Instagram, li guardano in tanti, anche se parliamo di cose alte e poco popolari.
Che piega sta prendendo la comunicazione in ambito culturale a livello generale? Hai percepito una trasformazione, un cambiamento manifesto o sottile in quest’ultimo anno? C’è una formula per fare comunicazione culturale al meglio?
Allora, io sono convinto di una cosa su questo: va trovato un punto di incontro tra il pubblico e gli addetti ai lavori. Nel nostro settore questi due contesti sembrano non incontrarsi mai. Io devo dire che sono fortunato, perché sono uno dei pochissimi che si occupa d’arte e che ha a disposizione allo stesso tempo TV (Sky Arte), radio (Rai1) e giornali (Rolling Stone), ma questo mi costringe anche a fare molta attenzione a bilanciare gli interventi. È quasi una formula matematica la mia e ogni volta che tratto un argomento faccio attenzione che risponda a due parametri: deve piacere sia a chi si affaccia a questo mondo per la prima volta, sia ai più esigenti e critici addetti ai lavori. La prima parte è quella che mi consente di lasciare qualcosa del mio lavoro, la seconda è il controllo di qualità. Spesso invece si bada ad accontentare uno o l’altro. E lasciatemi specificare che il mio non è un inseguimento del consenso a tutti i costi, ma una ricerca continua, spasmodica, che ha l’obiettivo di far capire che il contemporaneo è sì un’arte più complessa delle altre, ma che basta studiare un pochino per potersi avvicinare e sentirsi a proprio agio. In un mondo dove tutto deve essere immediato, che qualcosa debba invece essere approfondito non è male, no?