Una riflessione sul potere dell’immagine attraverso una scena del film Caro diario di Nanni Moretti.
Con colpevole ritardo, qualche sera fa ho recuperato un bel classico del cinema italiano: Caro diario (1993), di Nanni Moretti. Non c’era una ragione precisa per cui non l’avevo mai visto, come non c’è stata ragione che mi abbia spinto, finalmente, a guardarlo. Semplicemente il film ha aspettato il suo momento. Poi è arrivato ai miei occhi in una sera qualsiasi, ricordandomi l’incredibile poesia del cinema in un modo non qualsiasi.
Ancora all’inizio, passando in vespa lungo una periferica e disabitata Roma agostana, Moretti dice: «Che bello sarebbe un film fatto solo di case, panoramiche su case». Folle? Folle e bellissimo, tanto che la prima parte di Caro diario sfiora proprio questo obiettivo. D’altronde, chi lo dice dove si può nascondere la poesia? Da nessuna parte e ovunque allo stesso tempo, risponderebbero i più accorti. Non conta tanto quello che si racconta, quanto come lo si racconta. E in questo campo il cinema dispone di più strumenti di qualsiasi altra forma d’arte: la parola, la musica, l’architettura, la danza, l’immagine. L’immagine. Al minuto 37 del film l’immagine in movimento si esprime, almeno secondo la mia sensibilità, in modo così eccelso da risultare commovente.
Siamo nel secondo capitolo del film, “Isole”. Nanni Moretti sta camminando con le mani in tasca lungo una maltenuta riva vicino al porto di Lipari. Potrebbe essere del tutto trascurabile come inquadratura, se non nascondesse una ricchezza travolgente. In primo piano, una barca diroccata giace sull’asfalto, con una ringhiera sgangherata che rovina la vista del mare alle sue spalle; sulla sinistra un rudere, dietro le montagne. Tutto è immobile, fino a che una nave sopraggiunge prepotente dalla destra. Fine.
Sembra poco? Eppure, l’occhio è completamente rapito: e inizia a desiderare. Inizia a desiderare che la scena si riempia, che altri elementi emergano a dettagliare il quadro. C’è una voglia inspiegabile di addizione, di maggiorazione, di saturazione. Lo sguardo vuole di più. Ma l’inquadratura non si allarga e sembra sfidare chi osserva: se vuoi vedere cosa c’è, devi seguirmi. E così la telecamera prende ad accompagnare la nave. Spunta un faro, una città arroccata sul monte e, proprio quando iniziamo a percepire un vuoto nella parte inferiore dello schermo, ecco sbucare la porta di un campo da calcio, anch’esso roso dall’incuria.
Nel frattempo Moretti continua a camminare e dietro di lui la nave. L’occhio vuole muoversi, scoprire altri elementi, si sorprende a implorare che questo calmo movimento non termini mai. Lo vuole inesorabile. Fino a che la nave scompare dietro un albero dalle fronde rade; allora una montagna si trova a tagliare diagonalmente il cielo e la campagna (il prato, i giunchi, i fiori) si pone come un perfetto piano orizzontale che sorregge la scena. Qui il desidero dell’occhio cambia direzione, supplica che Moretti si fermi, che si fermi in quel preciso punto che può rendere l’immagine armoniosa, perfetta, con la sua figura umana nel mezzo dell’orchestra naturale. L’attore ciondola un po’, traballa, indugia e, infine, si ferma. L’occhio è soddisfatto, il cuore anche.