Della serie “piccole ma belle”, nel cuore del gigante: a São Paulo ArPa chiude la sua terza edizione, celebrando paesaggi, culture popolari e ancestrali e curiosa pittura
Con poco più di quaranta gallerie partecipanti, si è chiusa domenica a San Paolo (Brasile) all’ex Stadio Municipale Paulo Machado de Carvalho, più conosciuto come il Pacaembu – architettura creata negli anni ’40 con una capacità di 70mila spettatori e, all’epoca, considerato lo stadio più moderno dell’America Latina – la terza edizione di ArPa, una fiera che si potrebbe definire la Nomad dell’emisfero sud, tanto per la qualità degli allestimenti quanto per quella delle gallerie.
È infatti il best of della scena paulistana che si incontra tra i corridoi, a partire da Mendes Wood DM, Fortes D’Aloia e Gabriel, Gomide&Co, Almeida & Dale, Vermelho, Millan e Nara Roesler, ma anche Leme, che da vent’anni a San Paolo promuove il lavoro di artisti di generazioni e stili molto diversi, e Zipper che per l’occasione porta al Pacaembu il lavoro di due artiste differenti per età ma unite dall’uso del tessuto come mezzo pittorico: Jessica Costa, brasiliana (1988), e Laura Villarosa, nata a Palermo nel 1961, che intrecciano nelle loro debordanti pitture una relazione stretta tra natura e umanità, creando una serie di paesaggi ambigui che vanno ben oltre la dimensione del quadro, inglobando ambienti e parti dell’oggetto-quadro.
Un’ampia riflessione sul paesaggio latino è anche in scena da Vermelho, con le opere del giovane Meia che, partendo dalle estetiche e dagli elementi della strada, seleziona e raccoglie elementi con potenziale costruttivo e pittorico che riassembla in grandi “tavole”. Da Recife arriva invece la galleria Marco Zero che, a proposito di paesaggio, espone le curiose sculture ricavate dai tronchi di alberi di Véio, esposto anche all’Abbazia di San Gregorio a Venezia, nella mostra parallela alla Biennale di Architettura 2014 “Becoming Marni” e, soprattutto, i bellissimi quadri di Bozó Bacamarte, vero poeta nordestino che dalla sua terra riporta la bellezza dei miti, delle tradizioni e di una cultura popolare fortissima.
Dalla Biennale di Venezia (quella di quest’anno) con furore ci sono le pitture di Aycoobo, alias Wilson Rodríguez, nello stand personale che gli dedicano le gallerie Central + Instituto de Vision, parte del settore UNI della fiera, curato da Germano Dushá (curatore della prossima Biennale del MAM di San Paolo, che partirà a ottobre) e Benedicta M. Badia. Aycoobo, uno degli ultimi rappresentanti viventi del popolo Nonuya, attualmente vive e lavora a Bogotà e alla Biennale è esposto insieme alle opere di suo padre e maestro, l’artista Abel Rodríguez.
E se Casa Triângulo punta sulla tridimensionalità con il dialogo tra le geometrie secche di Ascanio MMM e il cemento “morbido” di Lucas Simões che si abbraccia al metallo di grato e strutture, creando una sorta di organicità nella razionalità delle forme, Leme punta tutto sul solo show di Ana Elisa Egreja dedicato alla sua serie “Vidros Fantasia”, dove l’artista lavora prendendo in esame l’universo dei rivestimenti, concentrandosi sugli effetti visivi di nature morte che stanno dietro a una superficie che rimescola la percezione del quotidiano, distorcendolo.
Una dimensione curiosa, che dalle nostre parti abbiamo sperimentato un po’ in varie forme, dalle esperienze laziali di Gran Palazzo a quelle torinesi di DAMA, a cui sono mancate – forse – la vasta scala di pubblico e di collezionisti che la capitale economica del Brasile proporziona alle sue manifestazioni.