Una nuova infornata di resoconti (stavolta ottimisti) dei film presentati all’edizione 2024 della Mostra del Cinema di Venezia
– Come va al Lido? In rete circolano immagini di burrasca e tempesta.
– Già. Come previsto è arrivata la pioggia, che ovviamente dopo tre settimane di insopportabile caldo africano sta venendo giù a secchiate abbondanti. Palpabile è il sollievo di tutti gli accreditati alla Mostra del Cinema, senza distinzione di sesso o di genere, perché finalmente si potrà dormire anche la notte, e non solo durante le proiezioni…
– Oggi di che cosa mi racconti?
– Del cinema italiano, che eccezioni a parte sta facendo qui in Laguna la sua porca figura. Massicciamente presente, con ben quattro titoli nella competizione principale e numerosi altri sparsi qua e là, si sta rivelando in buona se non eccellente salute. La prima è una sorpresona, ed è “Nonostante” di Valerio Mastandrea, presentato nella sezione Orizzonti. Se già con il meno riuscito “Ride” aveva messo in tavola le sue intenzioni di narratore discreto, misurato, che gioca di sottrazione per accrescere il tasso emozionale degli eventi illustrati, in questa sua nuova piccola e grande operina il “sempregiovane” Mastandrea racconta una bellissima storia corale, e lo fa giocando con il cinema e con l’idea stessa del vedere e del non vedere, perché quanto appare sullo schermo non è la stessa cosa che vedono gli altri personaggi compresi nell’inquadratura: un po’ come succede nel “Sesto Senso” di Shyamalan: di più non dico perché mi sembra di aver rivelato fin troppo. La snella volatilità con cui le differenti storie si intrecciano tra loro ha una fluidità cinetica scattante, imprevedibile, come quella di certi grandi autori della Nouvelle Vague o del Free Cinema degli anni 60 e 70, ma il tocco è italiano, e del migliore. Tutti ingredienti che permettono all’autore di schiacciare con levità il pedale di una mai enfatica e banale mestizia di cui sono circonfusi “color che son sospesi” tra la vita e la morte nelle stanze e nelle corsie di un ospedale (di più davvero non posso aggiungere senza spoilerare la gran bella idea alla base del film) con soluzioni visive eleganti e originali decisamente inusuali per un film italiano.
– Felice di sentirtene dire così bene. Peccato che noi comuni mortali dovremo aspettare il prossimo marzo per vederlo al cinema. Le altre sorprese?
– Ancora in Orizzonti (e mi domando come mai gli italiani del concorso di Orizzonti siano molto migliori di quelli della competizione ufficiale…), dalla factory di Luca Guadagnino, qui in veste di produttore, arriva un film che parla la lingua che si parla davvero nelle case e per la strada, e non il solito italiese: “Diciannove”, del giovane palermitano Giovanni Tortorici. Il protagonista si chiama Leonardo, ha i 19 anni del titolo, è attraente e disinvolto con le ragazze, ma si affaccia a rari intervalli sui siti gay e non si preoccupa più di tanto di approfondire i propri eventuali interessi omoerotici. Ma quel che brilla di più, in questo film stilisticamente fiero della propria elegante incertezza, sono i gusti letterari del ragazzo: no Gadda, no Pasolini, no Gramsci, ma piuttosto Tommaseo, Leopardi, Beccaria… perché oggi un giovane ha bisogno di una morale – lo dice lo stesso Leonardo a un suo cugino che vive a Milano – e di una prosa bella e armoniosa, non di bugie ideologiche “scritte male”. Più Ottocento e meno Novecento, insomma. I suoi compositori preferiti? Cimarosa e Pergolesi… Non so se mi spiego.
– Mi sembrano boccate di aria fresca, queste tue parole, e quasi mi commuovono. Ti prego, non smettere!
– No, no, tranquillo: a questa felice carrellata si aggiunge un altro secondo film di un autore che però aveva già dimostrato qualità non comuni di solido narratore tragico, Francesco Costabile, quello di “Una femmina”. A Venezia, anche lui nel concorso di Orizzonti, ha portato il nuovissimo “Familia”, un noir livido e denso come la pece, ispirato a un fatto reale. Ma se la storia può ricordare qualcuno dei mille e mille casi di quotidiana cronaca nera nazionale, l’occhio e la mano che la raccontano si distinguono per una intensità di tocco e una pietas quasi greca tradotta in immagini dal peso scultoreo e materico. La sequenza “d’amore” tra la madre e il padre ex carcerato è tra le più sconvolgenti viste qui al Lido. Tutti bravi gli interpreti, ma non posso non evidenziare la prova istintiva e viscerale di Francesco Gheghi nel ruolo di questo moderno Oreste sofocleo, esente da qualsiasi birignao televisivo, e anzi padrone totale di tutte le possibilità espressive del proprio corpo, silenzi compresi.
– Càspita. Fortunatamente per vedere questo si dovrà attendere meno di un mese: sarà al cinema dal 2 ottobre. Poi?
– Poi c’è il ritorno di Ciro De Caro dopo il suo “Giulia” festeggiatissimo qui a Venezia due anni fa. Di nuovo alle Giornate degli Autori è venuto quest’anno con “Taxi monamour”, ulteriore salto verso una sempre più matura qualità autoriale. Ha uno stile che non somiglia a nessun altro degli altri autori italiani, più giovani o più vecchi di lui: la sua camera a mano non è un vezzo “moderno” per conferire alle immagini maggiore immediatezza e verità, ma la pupilla affamata di un occhio avido di cogliere nel vasto campo visivo del nostro sguardo il dettaglio unico, essenziale e imperdibile, perché un evento, una frase, un sentimento, letteralmente possano esplodere sullo schermo in tutta la loro efficacia e la loro tenerezza. Perché il cinema di Ciro De Caro è un cinema della tenerezza, della gentilezza, delle emozioni non urlate, del pudore, anzi, di raccontare queste emozioni a volte lasciandole fuori dell’inquadratura, e farcele indovinare dall’audio di un pianto commosso che ad ascoltarlo tocca il cuore più che a vederlo. Tutto questo con la complicità e la chimica delle due meravigliose interpreti Rosa Palasciano (che insieme a Ciro ha scritto la sceneggiatura) e l’ucraina Yeva Sai. Per fortuna già da due giorni “Taxi monamour” si può vedere nelle sale di tutta Italia.
– Evviva. Almeno.
– Concorrono invece per il Leone d’oro, onestamente non so con quante speranze di portarselo a casa, “Campo di battaglia” di Gianni Amelio, inerte e soporifera storia bellica, cinematograficamente vecchia, anzi direi obsoleta: resta nella memoria solo il breve cameo attoriale di Vince Vivenzio, il cui fante affetto dalla tremarella ti lascia addosso un disagio che ti accompagna a lungo anche a visione terminata; “Vermiglio” di Maura Delpero, olmiano (mi riferisco ovviamente al Maestro de “L’albero degli zoccoli”), già di per sé una scelta di campo lodevole e coraggiosa, senza però arrivare pienamente a giustificare questo coraggio che nel 2024 richiederebbe forse, appunto, un’audacia maggiore; infine “Diva Futura” di Giulia Louise Steigenwalt, che però è gradevolissimo, e per il quale voglio addirittura spendere una parola impegnativa: miracolo. Trovo squisitamente controcorrente in questi tempi di neofemminismo e MeToo scegliere di realizzare un film sulla celebre agenzia di pornostar fondata negli anni ‘80 da Riccardo Schicchi, che ai tempi ho avuto la fortuna (sì: la fortuna!) di conoscere personalmente: un uomo di una gentilezza e di una dolcezza che sono stato felice di ritrovare nel ritratto che ne restituisce Pietro Castellitto aiutato, come l’intero resto del cast, da una scrittura prodigiosamente azzeccata nei modi e nei toni di un’epoca euforica e tragica, irripetibile, sostituita da un’attualità triste, noiosa e conformista, che ne ha espunto la folle vena di allegria e leggerezza.
– Ma “Queer”?
– Certo, anche “Queer” di Luca Guadagnino va senz’altro considerato, come il suo autore, un film italiano, ma di quello ti parlerò la prossima volta, insieme alle altre grosse cartucce del concorso ufficiale…
(2.Continua)