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The Habit of a Foreign Sky da FuturDome. Intervista a Ginevra Bria

Ornaghi e Prestinari Asmatico (dettaglio) Ornaghi e Prestinari Asmatico (dettaglio)
Ornaghi e Prestinari Asmatico (dettaglio)
Ornaghi e Prestinari Asmatico (dettaglio)

Abbiamo intervistato Ginevra Bria, curatrice con Atto Belloli Ardessi della prossima mostra che si terrà nella meravigliosa palazzina liberty di duemiladuecento metri quadrati in Via Paisiello a Milano, dal 29 settembre al 30 novembre, per la seconda volta sede espositiva delle proposte innovative di FuturDome. The Habit of Foreign Sky indaga sulla volontà di abbattere i confini tra spazio abitativo privato e spazio pubblico. Le opere allestiranno appartamenti non finiti, con l’intento di escludere la mera funzione abitativa, oltrepassando tematiche come memorie, alienazioni, rimozioni, trasferimenti e relazioni familiari tradizionalmente italiane, retaggi probabilmente derivanti dal concetto di proprietà della casa.

Mi parli del progetto FuturDome?

FuturDome – Un Museo che si abita – è un progetto che nasce per ripensare la natura dell’intimità, della privacy, della bellezza, dell’estetica e della flessibilità. FutureDome è una semplice dimostrazione di come l’abitare rappresenti una successione di letture dello spazio che alternano rivestimenti eleganti a preziose soluzioni artistiche. Compartimenti sperimentali e opere escluse dall’obbligo della funzionalità si fondono nella vita di tutti i giorni come fonti uniche di meditazione a portata di mano, né accessori, né mobilio, né angoli di cucina, né atelier e nemmeno mini-spa.

Chi entra negli appartamenti di FuturDome lo fa senza ulteriori filtri, arrivando direttamente dalla città e varcando la soglia di quella che sarà una corte per la cultura, aperta direttamente nella propria casa. Artisti e Designer selezionati incentreranno i loro progetti sulla rappresentazione di nuove dimensioni, integrando al concetto di innovazione la loro capacità di dare risalto a due eccellenze milanesi: la grande tradizione alberghiera e la massima ricerca creativa. Un connubio che, tenendo conto di estetica, sostenibilità e valorizzazione di spazi urbani storici, racconta l’identità più intima di una città. Edifici di ieri ritrovati e portati a nuova vita, per divenire sinonimo artistico del luogo in cui si soggiorna. Questo nuovo concetto di hotelerie, conferma in FutureDome, la vocazione di Milano per l’innovazione e la sperimentazione anche in campo residenziale. FuturDome è una casa Liberty dei primi anni del Novecento con i soffitti alti, i muri spessi, completamente restaurata con le più moderne tecnologie, domotica e interattiva con incorporato un luogo di aggregazione sempre aperto e dinamico. Una casa flessibile dove si possa soggiornare durante il tempo al di fuori degli orari. Una casa che si estenda ad ufficio-lounge bar dove poter ricevere clienti, organizzare cene e meeting di lavoro o presentare la propria collezione. Un appartamento nel quale, su richiesta del cliente, Isisuf allestirà esposizioni temporanee dedicate alle arti visive moderne e contemporanee, con possibili interazioni dell’artista in via remota. Un luogo nel quale l’arte e la creatività sono parti essenziali della vita quotidiana. Siamo lieti, ad esempio, di poter inaugurare ad ottobre, nei nuovi spazi su strada, la nuova sede di Le Dictateur.

Alessandro di Pietro
Alessandro di Pietro

Quali scopi si prefigge l’Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo?

Isisuf, che ha sede in Piazza Aspromonte, estende le proprie attività milanesi all’interno di un nuovo spazio: duemiladuecento metri quadrati ricavati da una palazzina liberty in zona Buenos Aires a Milano. L’obiettivo del progetto è la creazione di un nuovo edificio di servizi e residenze, destinato a mettere in contatto diretto opere d’arte e fruitori in maniera inedita ed inesplorata, unica ed eccezionale, nella tradizione rivoluzionaria dell’originale spirito futurista. Spazi ricettivi e comuni, uffici personalizzabili, showroom a disposizione di eventi mirati si sommano a spazi per residenze temporanee, coniugate dalla stretta relazione con opere d’arte appositamente create per gli spazi o provenienti dall’archivio della Fondazione. Isisuf (Istituto Internazionale Studi sul Futurismo) è un’organizzazione internazionale che, fondandosi sull’esperienza futurista, anticipa e segue i micromovimenti dell’arte contemporanea. Isisuf si pone come ricettacolo delle energie artistiche nazionali e internazionali, sviluppando e finanziando progetti legati all’arte visuale, all’architettura, alla letteratura, alla musica e al design. Nella propria sede l’Istituto organizza periodicamente mostre di arte moderna e contemporanea, conferenze, talk e presentazioni di libri.

Vi sono punti di riferimento con il movimento storico del Futurismo?

L’edificio è stato realizzato nel 1913 e rispecchia i migliori stilemi Liberty dell’epoca. Nonostante le guerre, non è stato rovinato dai bombardamenti e infatti, ha conservato il suo splendido lignaggio di facciata, mostrando ottimi convolvoli in materiale ferreo e ricercatezze nei decori cementizi. Il palazzo grazie all’alta qualità dei decori è stato oggetto di pubblicazioni ed è annoverato tra gli esempi più particolari di Liberty Milanese. Meta di riferimento ed incontro delle ultime generazioni di artisti aderenti al Futurismo, artisti che avevano conosciuto direttamente Filippo Tommaso Marinetti (fra i quali: Crali, Masnata, Munari, Belloli, lo stesso Depero, Regina etc), il palazzo è ancora oggi spunto estetico e territorio rappresentativo, elaborativo per artisti internazionali contemporanei che più volte lo hanno incluso nelle loro opere, come André Komatsu e Jason Gomez.

Devo precisare infatti che a metà degli anni Quaranta, in seguito alla fine dell’esperienza futurista nel 1944, sono stati proprio gli artisti che si incontravano in via Giovanni Piasiello, a dare avvio ai movimenti di Poesia Concreta e Poesia Visuale fondando gli archivi Isisuf. L’Istituto, oggi, oltre agli archivi dell’opera Futurista, gestisce gli archivi personali del critico d’arte e poeta visuale Carlo Belloli e dell’artista brasiliana Mary Vieira, nonché un archivio fotografico contenente migliaia di immagini della scena artistica italiana degli anni Sessanta e Settanta. La biblioteca del nostro Istituto è composta da circa cinquemila volumi ed è divisa in cinque sezioni, quella principale è dedicata al Futurismo e alle Avanguardie del Novecento, le altre ad architettura, poesia d’avanguardia, scultura e critica d’arte.

La prima esposizione fu “Imitatio Christie’s”, svoltasi durante l’ultima edizione del Miart, come ha risposto il pubblico all’evento, considerando la location così alternativa?

Siamo stati travolti, non credevamo di riuscire ad accogliere e ad attrarre così tante persone. Siamo stati grati di tanto successo di pubblico. Prima dell’inaugurazione, abbiamo stampato un migliaio di liberatorie, che credevamo sarebbero bastate a coprire i visitatori lungo l’intera durata del percorso, per due mesi circa. Mai documenti, uno per ogni persona entrata, sono stati firmati, compilati e infine esauriti in soli due giorni. Abbiamo dato il benvenuto a curiosi, a studenti, ad amici, ad artisti, a direttori di musei, di gallerie, di fondazioni e persino, una domenica mattina, in pieno miart, durante una lunga visita in solitaria, a Hans Ulrich Obrist.

Giovanni Oberti
Giovanni Oberti

In definitiva si tratta di mettere a disposizione gli ambienti abitativi o le parti comuni condominiali, a fini espositivi?

Non solo. Un percorso espositivo, concepito attraverso stanze, appartamenti, cantine, sotterranei deve presupporre, ancora prima della sua effettiva realizzazione, le facoltà potenzialmente alienanti dei lavori inseriti in spazi privati. Linguaggi inattesi di cui ogni ospite può fare esperienza nel momento dell’incontro con l’opera che potrà evidenziare la visualizzazione della fragilità e della dimestichezza di circostanze familiari. Diventa necessario dunque assorbire ogni significato della mostra lungo l’arco di oltre mille metri quadrati, per arrivare a comprendere il senso di misteriosa penetrazione di unità che hanno spinto l’arte a pervadere regioni dalle quali si è rimasti esclusi per numerosi decenni, immedesimandosi nelle persone che hanno abitato quei luoghi come un’esperienza tra esclusione e inclusione.

Universalmente, mettere alla prova l’ambiente domestico, ad ogni latitudine, significa esplorare il dominio della casa come modello di un esame più esteso sull’intersezione tra i temi di razza, classe, genere e assorbimento, nel privato, di macro-predisposizioni sociopolitiche. Ma in un palazzo aperto, in transito dalla dimensione pubblica a quella privata, in appartamenti vuoti, non ancora abitati, il termine casa acquista il senso di una limitazione sulla proprietà; diventando un’architettura del vivere nel regno del possibile. Un luogo dove tutto deve ancora succedere. Per la generazione di artisti trentenni italiani, la vita nella possibilità, nella presa di distanza dalle proprie radici, come sottolinea la scelta dell’immagine descritta dal titolo, significa aver compiuto una necessaria ricognizione all’esterno, a partire da una propria misura interiore. Consapevolezza di uno sguardo fatto di molte case.

The Habit of a ForeignSky è la prossima mostra che si terrà in Via Pasiello, da te curata, chi saranno gli artisti?

In The Habit of a ForeignSky i lavori appaiono come prese di possesso temporanee, protesi narrative di architetture interne, con possibilità di livelli di lettura amplificabili a seconda di diverse varianti; lavori privi di un aspetto univoco predominante secondo il quale analizzarli, ma tutti intrinsecamente volti a valorizzare il rapporto tra lo spettro della soggettività e lo spazio privato. Alcuni artisti interpretano il vuoto domestico cercando di ripristinare l’equilibrio tra una pragmatica del lavoro, il loro studio verso il quale sono riconoscenti conoscitori e il palazzo, ricreando un contesto allestitivo a sé stante, caratterizzato da rinnovate codifiche. La casa viene utilizzata come contenitore in cui l’artefice inserisce interventi esecutivi, facendoli diventare, di riflesso, un luogo in sé e per sé, un limite, un orizzonte neutro, predisposto a cancellare le tracce degli abitanti, passati e a venire. E’ il caso di Valentina Perazzini, che svuota le stanze a disposizione e le trasforma in un ambiente per la sintesi di natura. Alessandro Di Pietro, nell’attico, invece, crea spazi di meditazione lontani dalla quotidianità e immersi nel silenzio della parola, dove qualche oggetto isolato si manifesta come una presenza simbolica di informazione della memoria, scatola nera di un personaggio mai esistito.

Il rapporto tra il pubblico e il privato, e il labile confine esistente tra queste due sfere, come nel caso di Ornaghi&Prestinari, resta la tematica principale di una coppia di artisti che con le loro sculture di design mette in discussione il rapporto tra l’istituzionalismo espositivo, l’ambiente della casa, il limite dei materiali e il ruolo dello spettatore. Mescolando realtà e finzione, questa coppia prova a dare una risposta alle problematiche derivate dall’organizzazione della mostra stessa e da quel che le soggiace in termini strutturali, analogamente alle installazioni intrusive di Jonathan Vivacqua. Il ruolo dell’ambiente del cantiere e il contesto sociale esterno, ad esso collegato, acquistano un’importanza fondativa nell’elaborazione degli interventi selezionati e conformati, valorizzando, ad esempio, negli stralci corporali di Guglielmo Castelli, discipline e applicazioni.

Alcuni di loro assemblano non solo soluzioni plastiche amalgamate in funzione dello spazio (Michele Gabriele), ma soprattutto in previsione degli abitanti della casa con i quali instaurano un rapporto di visionaria, anteriore prossimità (Enrico Boccioletti).

Dal punto di vista dei visitatori, l’obiettivo di un’esperienza diretta della fruizione dell’opera arte può non essere del tutto raggiunto: la ristrettezza degli spazi, paradossalmente, sovraespone i lavori, come ricordano gli interventi di Diego Miguel Mirabella, poiché, pur avendo una visione maggiormente interagente dei lavori, rimangono comunque sulla soglia tra esistente ed esistito, mantenendo, a loro volta, il ruolo di abitatori, di invitati, di ospiti. I reali, futuri padroni di casa, invece, che ricorderanno, attraverso la riproduzione di immagini e alcuni lavori incastonati permanentemente nell’edificio, quel che è intercorso fra i muri degli appartamenti, potranno vivere l’opera giorno per giorno, in remoto, indirettamente, ma diventandone i secondi protagonisti immanenti. Lo scambio continuo tra artista e padrone di casa, ben evidente nel salotto dal cielo giallo di Giovanni Oberti, porterà l’uno a mettere continuamente in discussione pratica e autonomia estetica -dovendo scendere a compromessi- e l’altro a scoprire di persona una realtà, un tempo sovrapposta, ma integra e contingente.

Guglielmo Castelli
Guglielmo Castelli

Quale è il comune denominatore?

A posteriori, durante le fasi di allestimento, posso affermare che, una volta in FuturDome, gli artisti, a livello corale, stanno cominciando ad aderire, ad indagare una parte privata di Milano, condividendo la  storia della città e la loro intimità attraverso territori in comune, condivisi con altri visitatori. Nella circolarità del corpo di un edificio, dunque, ci si potrà sentire parte di un tutto, come in una sorta di manifestazione sacra, rituale. Come se l’aura dell’opera d’arte, momentaneamente persa perché sradicata da un contesto legittimamente istituzionalizzato, ma fruita comunque da una comunità ampia, si riproponesse in una domesticità da riscrivere.

I lavori allestiti in appartamenti non finiti, ma aperti e dediti ad ospitare The Habit of a ForeignSky escludono la necessità dalla funzione dell’abitare, oltrepassando tematiche come memorie, alienazioni, rimozioni, trasferimenti e relazioni familiari tradizionalmente italiane, retaggi probabilmente derivanti dal concetto di proprietà della casa. In questo contesto si deve attivare, ad esempio, un superamento dell’idea che una femminilità, e una differente occupazione degli spazi a seconda dell’appartenenza di genere -legata ad un domicilio-, possa raggiungere una diversa prospettiva, utilizzando la sfera domestica per colpire ogni riserva politica o estetica della morale casalinga. La familiarità dell’ambiente domestico viene qui sfidata e il suo significato ricondotto dalla categoria pubblico-privato a pubblico-ricettivo, in questo modo non solo un’audience di addetti ai lavori, ma anche coloro che abitano il vicinato di FuturDome possono muoversi attraverso gli appartamenti riadattandoli a piattaforma di analisi, di mediazione tra sistema dell’arte,  curatori, critici, galleristi, collezionisti e semplici curiosi. Si individua così la funzione dello spazio espositivo, posto come terzo polo tra il mondo esterno e il quotidiano, dove le convenzioni di ogni dualismo possono essere spezzate, interrotte e riprogettate. Un territorio a sé stante, un terzo agglomerato, dunque, che risulta né positivo né negativo, fornendo un’esperienza che raggiunga un sovvertimento delle strutture esistenti del potere culturale centralizzato; uno spazio che interroghi il concetto di domicilio e che funga da collegamento tra le diverse istituzioni indipendenti che stanno nascendo a Milano, compresi anche i numerosi artist-runspace.

Un progetto esportabile in altri palazzi e altre città?

The Habit of a ForeignSky, in vero, ci auguriamo possa calcare le orme di numerosi altri progetti che nel tempo e, perché no, anche nello spazio, si ricolleghino, ad esempio ad un progetto di ridefinizione tra arte pubblica e privata, come lo è stato Chambres D’Amis, curata da JanHoet nel 1986, a Gand, in Belgio. Quella, per gli artisti, non fu solo un’esperienza professionale, ma un’occasione per instaurare rapporti con un pubblico più o meno scettico nei riguardi dell’arte contemporanea. Molti padroni di casa conoscevano alcuni artisti, ma per altri fu il primo approccio a questo tipo di arte. Diverse loro testimonianze descrivono come il rapporto diretto con gli artisti abbia mutato radicalmente la loro opinione sul concetto di arte contemporanea. Questa è la vera vittoria di Chambres D’amis e un obiettivo che si pone anche The Habit of a ForeignSky. Dal punto di vista dei visitatori, l’obiettivo di un’esperienza diretta dell’arte non è stato forse del tutto raggiunto, poiché essi, pur avendo una visione maggiormente interattiva dell’opera, rimanevano comunque sulla soglia, mantenendo il ruolo di spettatori. I padroni di casa, invece, hanno vissuto l’opera giorno per giorno, diventandone spesso i secondi protagonisti. Lo scambio continuo tra artista e padrone di casa ha portato l’uno a mettere continuamente in discussione la sua opera e la sua autonomia, dovendo scendere a compromessi, l’altro a scoprire di persona una realtà nuova e stimolante. In FuturDome, invece, i reali, unici residenti sono gli artisti che hanno lavorato all’interno degli appartamenti e i loro lavori, non più oggetto, ma soggetto attivatore di condizioni della fruizione dell’arte.

Per quanto riguarda FuturDome – Un Museo che si abita è un progetto nato a Milano, ma destinato a replicarsi in altre città. E’ un percorso che supera l’architettura puntuale ed è generato dal desiderio di riqualificare antichi spazi di rilevanza storico culturale, prende forma un nuovo concetto di ospitalità: totalmente scardinati gli stereotipi del residence canonico, parti comuni e appartamenti si trasformano in possibili spazi espositivi. Le singole unità abitative diventano così inattesi ambiti d’allestimento che, a seconda del desiderio di chi le abita, possono essere utilizzate da artisti e designer d’avanguardia come sale di un unico museo.

Informazioni utili

http://www.futurdome.com/

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