La dipendenza umana dalle storie, le nostre difficoltà con l’astrattismo e l’interpretazione dei sentimenti.
Era la sala di Cy Twombly, prima ancora era stata quella di Mark Rothko. Ora appartiene a Joan Mitchell. Nella mia personale mitologia artistica, la stanza numero undici della Tate Modern di Londra occupa un posto d’eccezione. Non solo perché è la più raccolta, in qualche modo isolata, raggiungibile perlopiù se la si vuole raggiungere, altrimenti sensibile ad essere saltata in quanto laterale, all’apparenza un extra al percorso di visita. Ma soprattutto per via della sua vocazione espositiva dedicata a un singolo grande artista, iconico, che a turno ne occupa le pareti con una serie di opere di grandi dimensioni.
Il primo, almeno nella mia esperienza di visitatore, è stato Rothko, con le infinite distese cromatiche dei suoi quadri immerse in un’atmosfera scura e riflessiva, dalle pareti tenebrose, allineate con i toni viola e marroni dei lavori, un’anima nera nel corpo bianco del museo. Il pittore aveva realizzato la serie – chiamata Seagram Murals – nel 1958 per il ristorante Four Seasons, situato nel Seagram Building di New York. All’ultimo però Rothko si era tirato indietro dal progetto, giudicando il ristorante “un posto dove i bastardi più ricchi di New York verranno a nutrirsi e mettersi in mostra“. Le opere avevano così trovato collocazione lungo il Tamigi, insediandosi nella sala che a lungo ha ospitato la loro esposizione.
Ma le esigenze museografiche moderne, in modo comprensibile, impongono una rotazione di tutti gli elementi esposti, anche quelli della collezione permanente. Così, dopo una rapida schiarita alle pareti, gli abissi riflessivi di Rothko sono stati sostituiti dai volteggi iperbolici di Cy Twombly. Tre grandi dipinti dove ampie pennellate rosse si attorcigliano in un gomitolo di colore colante. Sono l’estensione massima del segno essenziale e confuso dell’artista, qui portato su una scala monumentale e avvolgente, che spiralleggiando allaccia il visitatore nel suo turbinio dinamico. Le opere – Untitled (Bacchus) – sono dedicate al dio romano del vino e del piacere dei sensi, che Twombly ha conosciuto nelle sue letture e nel tanto tempo speso in Italia. Il colore rosso dei dipinti ricorda proprio il vino caro al dio, mentre le forme attorcigliate riconducono ai rituali da lui celebrati, baccanali d’estasi e perdizione dove il confine tra divertimento e dissoluzione era spesso sfumato.
Recandomi oggi alla Tate Modern, però, non mi è stato più possibile prendere parte a questa pittorica riproduzione delle feste di Bacco. Le opere di Twombly sono infatti state sostituite da un nucleo di lavori di Joan Mitchell, che il museo ha avuto in prestito dalla Louis Vuitton Foundation cedendole momentaneamente proprio i Seagram Murals di Rothko. Un’altra artista astratta, in qualche modo sintesi tra i due artisti che l’hanno preceduta. Se Rothko è tutto colore e Twombly perlopiù segno, Mitchell ha caratterizzato il suo stile adottando pennellate evidenti, volutamente stressate, ma molto cariche di colore e sfumate dalla reciproca sovrapposizione. Più preciso, se vogliamo, il paragone con Pollock e de Kooning, tanto che con i due Mitchell partecipò nel 1951 alla mostra Ninth Street: Exhibition of Painting and Sculpture, a New York. Un evento seminale per la seconda generazione di espressionisti astratti, di cui l’artista è principale rappresentante, con tanti grandi musei del mondo che possiedono in collezione i suoi lavori.
Nello specifico, la Tate Modern espone sette monumentali dipinti astratti su tela (come da consolidata tradizione della sala) e una serie di opere su carta, dove a una poesia è affiancato un piccolo schizzo astratto. La maggior parte di queste sono state realizzate dall’artista negli ultimi vent’anni di vita. Un periodo segnato dalla morte di diverse persone a lei vicine e dalla sua stessa diagnosi di cancro; ma anche dal trasferimento a Vétheuil, a nord-ovest di Parigi, dove la sua casa, La Tour, si affacciava sulla Senna ed era circondata da alberi lussureggianti e campi di fiori. Nonostante l’incontro ravvicinato con la natura, le opere rimasero ancorare alla terra informe dell’astratto.
“Non potrei mai rispecchiare la natura, piuttosto vorrei dipingere ciò che mi lascia“, dice Mitchell del suo lavoro. Ed è più o meno quel che cerco di raccontare a un ragazzo che, perplesso davanti alle opere, scambia qualche parola con me durante la visita. In particolare, non riesce a rassegnarsi al fatto che non esista un soggetto. Disperatamente cerca di scovare un elemento che almeno vagamente assomigli a qualcosa di figurativo, un perno su cui istaurare un abbozzo di narrazione. Ostinazione interessante, che evidenzia almeno tre aspetti sul genere umano: abbiamo un disperato bisogno di storie; le storie sono una matrice di significati e implicazioni che aiutano a strutturare e comprendere il mondo (e quindi pure un’opera d’arte); facciamo fatica ad abbandonarci a un linguaggio non mediato, come se tra la realtà e i sentimenti dovessimo necessariamente porre una riflessione.
Ripensando a queste considerazioni,, mi viene in mente una domanda che tornando indietro avrei voluto rivolgere al ragazzo: le opere di Mitchell le preferisci ora, dove averle viste e ragionato a lungo, oppure erano meglio durante il primo istante in cui le hai guardate? Meglio, sostanzialmente, scavare dentro se stessi, lasciare che l’opera sedimenti in noi, oppure godere dell’impattato epifanico del nostro primo sguardo? Dove sta, in sostanza, la natura di un sentimento: nel suo manifestarsi o nella scia che lascia in noi?
Probabilmente una risposta giusta, univoca, non esiste. Ognuno di fronte a un’opera astratta si trova a decifrare un codice senza soluzione, che nasce dall’ispirazione dell’artista e si conclude nella sensibilità dell’osservatore. Sensibilità chiamata forse a una prova ardua: esprimersi senza l’intermediazione di una storia ma muovendosi nell’impalpabile mondo della suggestione. “Non mi propongo di ottenere una cosa specifica, piuttosto cerco di catturare un movimento o per un sentimento…La mia pittura non è un’allegoria o una storia. È più simile a una poesia“, racconta Mitchell, esplicitando un rapporto già evidente dalle opere su carta, dove pittura e poesia sono linearmente affiancate. Una frase che, se avessi letto prima, avrei forse potuto suggerire a quel ragazzo che, poco convinto, provava a trovare una risonanza tra sé e le opere alle pareti.