
Immaginate di camminare lungo la riva di un’isola veneziana all’ora in cui l’acqua si fa specchio e le barche sembrano dormire. Non siete turisti, stavolta. State andando in missione. Attraversate la laguna come in una scena di un film anni ’60, magari con una colonna sonora di Nino Rota in sottofondo, e vi ritrovate a San Giorgio Maggiore. Ad accogliervi, niente maschere, niente gondolieri. Solo un edificio con pareti trasparenti e nomi incisi nella memoria: LE STANZE DEL VETRO. Ma non si tratta di un’ennesima mostra nostalgica, no, qui si parla di rivoluzioni fatte di bollicine, di ossidi, di spessori e trasparenze. È il secondo capitolo di una saga che riscrive la storia dell’arte decorativa a Venezia: “1932-1942. Il vetro di Murano e la Biennale di Venezia”, a cura di Marino Barovier. Dieci anni raccontati attraverso il vetro, un decennio incastrato tra utopia e guerra, dove le fornaci di Murano brillavano più del Lido in alta stagione.
Nel 1932, mentre l’Europa accarezza la modernità col sospetto che tra poco tutto possa esplodere, il padiglione Venezia della Biennale si allarga per fare spazio alle arti decorative. Finalmente il vetro smette di essere un comprimario e sale in scena. E lo fa con stile. C’erano tutti. Carlo Scarpa, che con la Venini rivoluziona l’idea stessa di “pesantezza”, proponendo vetri che sembrano sculture astratte appena uscite da un sogno Bauhaus; Flavio Poli, che gioca col colore come se fosse un jazzista a Murano; Dino Martens, che prende le forme classiche, ci soffia dentro ironia e ne fa anfore metropolitane. E poi le fornaci: la Zecchin Martinuzzi con i suoi incamiciati dalle sfumature vellutate; la Barovier con i “crepuscolo” e i “gemmati”, vetri che sembrano nati da alchimie dimenticate; la Salviati che riesce a infilare un “grappolo d’uva con cartoccio” in una Biennale e farla franca, anzi — entusiasmare la critica.

In questa mostra si respira l’elettricità di quegli anni. La voglia di sperimentare, anche quando il mondo si stava oscurando. Vetri leggeri, pesanti, soffiati, incisi, a murrina, a lume, con canne, con foglie d’oro, con storie. Perché ogni vaso, ogni coppa, ogni scodella esposta oggi qui era già allora una sfida: alla tradizione, al mercato, al tempo.
È commovente vedere come, mentre fuori rullano i tamburi della Storia con la S maiuscola, dentro le Stanze del Vetro ci si ostini a giocare con la luce. A voler fermare l’istante. A creare qualcosa che duri. E ci sono riusciti.
Marino Barovier ha curato questa mostra come si curano le cose rare: scavando negli archivi, cercando prove, ridando voce a artisti, architetti, tecnici, maestri vetrai, dimenticati o idolatrati. Ne esce fuori un percorso teso, vibrante, dove ogni oggetto è messo lì non solo per piacere all’occhio, ma per dire qualcosa. Anche oggi.
Perché quello che succede alle Stanze del Vetro è un esperimento di viaggio nel tempo. Si parte dal 1932, si arriva al 1942, e nel frattempo ci si accorge che il vetro non è mai stato una cosa fragile. È stato, semmai, una promessa.
L’ingresso? Libero. Le visite guidate? Gratis. L’aria? Pregna di storie. Il contesto? Un ex monastero disegnato da Selldorf Architects. Il mood? Post-apocalittico-ottimista.
Le Stanze del Vetro non sono un museo, sono una dichiarazione d’amore: alla materia, al gesto, all’invenzione. E anche un po’ alla follia. Quella che ci vuole per mettere insieme un pannello musivo su disegno di Tomaso Buzzi e una serie di coppe a bolle super-iridate e dire: sì, questo è il futuro. Quindi andate, prendete il vaporetto che San Giorgio vi aspetta. E là dentro, tra trasparenze e riflessi, lasciatevi incantare. Perché in fondo, lo dice anche Scarpa, la vera modernità ha sempre il rumore di un soffio. Chissà se mamma Biennale riporterà mai al padiglione Venezia certi grandi maestri del vetro.













