Lanciatori di coltelli, maghi, giocolieri, soldati al fronte, cacciatori e bambini. La Galleria del Cembalo di Roma fino al 24 gennaio 2015 presenta una mostra con le dodici serie fotografiche che costituiscono la raccolta Storie brevi di Paolo Ventura.
L’origine di questo lavoro nasce dalla casualità. “Nel settembre del 2011 mentre rifacevo il tetto del mio studio è crollato un pezzo. Improvvisamente un angolo buio della stanza si è illuminato. L’inaspettata fonte di luce esposta a nord mi ha fatto venire voglia di creare questi piccoli teatri e di animarli” spiega l’autore milanese, regista, costumista, interprete trasformista e protagonista delle scene sulle quali la moglie, il figlio e il fratello maggiore si alternano a divenire vittime della sua fantasia.
Nell’esposizione, le sue immagini narrative, surreali e tragiche si accompagnano a bozzetti preparatori, qualche costume, e i fondali dipinti usati per le scenografie dei suoi racconti.
La Galleria del Cembalo presenta le dodici serie fotografiche che rappresentano la tua raccolta di Storie brevi. Tu le chiami “piccoli teatri animati“. Puoi raccontare in sintesi come crei gli ambienti delle tue storie e quanto tempo richiedono?
“Un anno, tre giorni, dipende dall’ispirazione. Direi che non è importante il tempo effettivo, mi è successo di metterci due ore o un anno. Dipingo un fondale, mi ci metto davanti, io solo o con altri, e mi fotografo. Il procedimento è semplice se vogliamo, ma tutto nasce prima.”
In pochi anni, hai creato con la tua fantasia uno stile, una tua identità che affonda nel passato, mescola pittura e fotografia e attinge anche a cinema e al teatro. A cosa e a chi ti sei ispirato?
A nessuno. Mi piacciono molto le storie di Edward Gorey, le fotografie di Franz Roh, i disegni di Saul Steinberg. Ma l’ispirazione è qualcosa di misterioso ed è difficile dire se poi qualcosa di chi amo entri nel mio lavoro.
C’è magia e fantasia nella tua fotografia, rimandi onirici e surreali. Come mai sei così affascinato dal Novecento Italiano?
Sono nato nel ‘900 e mi interessa questo secolo. E poi, perché dire che io mi ispiro al passato? Nessuno di noi sa come sarà il futuro. Il mio lavoro è contemporaneo se si può dire, “a me stesso”. Io racconto delle storie, senza chiedermi se si svolgano nel passato.
Quanto conta per la tua creatività, la pittura e la fotografia? E quanto la storia della fotografia entra nei tuoi “quadri”?
Non sono uno storico della fotografia né della pittura. La fotografia, la pittura, le arti visive in generale hanno influito sul mio immaginario come per chiunque lavori con questi mezzi. Uso la fotografia che ha 130 anni – e quindi tengo conto del passato, lo conosco, lo uso, ma non mi sento di lavorare nel passato.
C’è o ci sarà spazio nelle tue rappresentazioni per gli scenari contemporanei ?
I miei scenari sono contemporanei perché li faccio qui e ora. Cos’è il contemporaneo? In India ci sono villaggi in cui vivono come da noi nel 1600, a Tokyo la vita sembra anni luce avanti a noi. Non mi sento un uomo del passato e se in qualche forma il passato entra nel mio lavoro lo fa sempre in forme distorte, senza ricerca di autenticità o manierismo, senza nostalgia.