Prendendo spunto da una frase di Goethe, Domenico Bianchi porta in mostra un nuovo corpus di opere dedicate alla sintesi tra materia e luce. Dal 19 marzo al 23 luglio 2022, alla Galleria Poggiali di Firenze.
C’è un doppio binario particolarmente apprezzato nell’arte contemporanea. Quello che si muove sul percorso parallelo che affianca piacevolezza estetica e ragionamento tecnico. Il primo, per quanto indagabile, rimane dopotutto insoluto: chi può dire cosa è oggettivamente bello e cosa no? Nessuno, anche se qualche idea, nei secoli, ce la siamo pure fatta. Il secondo, invece, per quanto suscettibile ad arrotolamento retorico, rimane altresì caratterizzato da limiti chiari, orizzonti all’interno dei quali modificare e combinare. Cosa? I materiali e le loro caratteristiche, le forme e le loro peculiarità, il soggetto e la sua assenza, il supporto e le sue specificità.
Domenico Bianchi, in occasione della sua prima mostra alla Galleria Poggiali di Firenze, sembra riuscire a coinvolgere entrambe le dimensioni. Basta una rapida occhiata a ricercare le questioni tecniche, che queste si presentano fresche di soluzioni inedite. Accostamenti inusuali di colori a cera come il bianco e il rosa o il blu e il giallo, lavorazioni del marmo bianco di Carrara a parete all’interno del quale sono stati incastonati lapislazzuli, incisioni su legno e lavorazioni del palladio.
Cosa può già dirci tale evidenza? Per esempio, che Bianchi conosce la storia dell’arte e gioca sapientemente con le sue regole. Come prelevare il marmo – elemento prettamente scultoreo – e applicarlo alla parete, facendogli assumere forma e funzione di un tela. Allo stesso modo quella che parte come una concretizzazione pittorica non è altro che un espediente per ingannare i sensi e stimolare la riflessione. Un calembour tecnico che non pretende di ribaltare paradigmi, ma di evidenziare una tensione creativa intensa, declinata in sperimentazione formale.
Lo stesso titolo della mostra – Mehr Licht – suggerisce sia preferibile un approccio da connoisseur all’esposizione. Esso prende ispirazione dalla celebre invocazione “più luce!”, che si narra abbia pronunciato Goethe il 22 marzo 1832 sul letto di morte. Una frase che riassume il profondo rapporto del poeta con il concetto di luce – lungamente affrontato in alcuni dei suoi trattati scientifici come La Teoria dei Colori e La Metamorfosi delle Piante.
Una frase che si adatta anche all’opera di Bianchi, che sembra chiamare a sé una fonte luminosa così intensa da poter accecare qualsiasi confine. Scultura o pittura? La natura si fa confusa laddove la materia si trasforma in luce senza perdere fisicità. Presenza materiale, per di più, che distingue il lavoro di Bianchi da quadri tradizionali. Anzi, è proprio essa ad assorbire la spinta della luce e trasformarla in corpo solido, brillante ma tangibile, denso ma allo stesso tempo bagnato di irrealtà.
Ogni eccesso o manchevolezza di sostanza – sia essa marmo, legno, cera o palladio – assume dunque un ruolo centrale, tanto nell’equilibrio tecnico quanto nella resa dei volumi. Addirittura, nei lavori su lastre di marmo l’artista sembra dialogare con il celebre stiacciato di Donatello. In mostra, sempre in questi mesi, a Palazzo Strozzi di Firenze. Si tratta della tecnica con cui il maestro rinascimentale realizzava immagini piatte con variazioni di spessore infinitesimali che, come nella grafica, affidavano alla costruzione matematica dello spazio, e a sofisticati giochi di luce e ombra, il compito di definire la profondità.
Bianchi fa un’operazione simile, ma ancora una volta devia verso una variazione. In particolare abbandona la narrazione figurativa e didascalica del Quattrocento per orientarsi verso un’astrazione geometrica fluida, priva di immagini rappresentative ma ricca di suggestioni simboliche. Ed estetiche.
Perché difatti, chiudendo il discorso iniziato in apertura, le opere di Bianchi, ancora prima di affrontare la questione tecnica, abbandona di gradevolezza estetica. Fattore determinate in sé, ma efficace anche come veicolo di attrazione, di richiamo verso i meccanismi occulti dei lavori. In una solo superficie non si intersecano solo piani e prospettive (dunque lo spazio), ma anche dimensioni temporali che misurano la durata dei nostri processi cognitivi e contemplativi. Pare complesso? Forse. Anche se la sensazione è che tutto questo venga subito trasmesso, in un colpo lungo appena un istante, dalle opere di Bianchi. Il resto è solo questione di scoprire di già sapere quel che consapevolmente ancora non vediamo.