Alessandro Simonini (Modena, 1985) vive e lavora a Milano. Nel 2008 si è laureato in Filosofia all’Alma Mater Studiorum di Bologna e ha studiato recitazione presso la Scuola di Teatro Louis Jouvet. Sempre a Bologna nel 2012 ha conseguito la Laurea Magistrale in Arti Visive (DAMS). Nel 2019 è stato in residenza presso Viafarini a Milano e nel 2011 ha vinto il premio della critica Next Generation, Premio Patrizia Barlettani a cura di Roberto Milani, Milano.
Com’è nato il rapporto con l’arte visiva, come lo collochi temporalmente rispetto il tuo triennio in Filosofia a Bologna? Come lo studio dell’estetica classica, della fenomenologia e della storia della filosofia antica e moderna hanno influito sul tuo pensiero e sulla pratica artistica?
L’arte ha rappresentato nel/per il mio percorso universitario quel movente in grado di definirlo in termini di continuità e coerenza, funzionale a una pratica artistica che già da tempo, anche se in forma embrionale, era in corso. A ben vedere, la riforma da allora in vigore, il 3+2, ha favorito proprio quella “indisciplina” che ancora oggi non mi fa dubitare delle scelte intraprese: mi sono laureato al triennio in Estetica con una tesi in Psicologia dell’arte sull’Unheimlich (il Perturbante) freudiano poi approfondita per la Laurea Magistrale in Arti visive (DAMS). Lo studio interdisciplinare di questo tema di origine psicanalitica, così diffusamente applicato alla teoria dell’arte, e riveduto più tardi anche in chiave esistenzialistica da Heidegger, ha accompagnato le mie prime sperimentazioni con la tecnica del collage su tela, tavola e parete.
Senza dimenticare quanto la fenomenologia (degli stili) abbia segnato l’insegnamento della storia dell’arte, soprattutto a Bologna, con Renato Barilli critico d’arte e letterario, fedele allievo e assistente di Luciano Anceschi e direttore del dipartimento di Arti visive dal 1980. Sempre in quegli anni la scuola di teatro ha orientato la mia ricerca verso quell’approccio “totale” all’arte che ritengo essenziale sia dal punto di vista formale sia di senso.
Come inserisci la ricerca nel tuo lavoro, come la intendi, come la sviluppi? Quanto è importante la lente attraverso cui leggi l’arte data dai tuoi studi?
Nel mio lavoro mi definisco ricercatore ancor prima di artista. La mia ricerca ha inizio laddove, in termini esistenzialistici, sorge l’interrogativo sull’origine dell’opera d’arte che ha essenzialmente a che fare con la verità, il suo “porsi in opera”. L’evoluzione di un progetto rappresenta per me un modo di essere-nel-mondo e con esso le mie opere, il più sincero tentativo di restituirne e re-instituirne formalmente il senso. Questo presupposto concettuale, a fondamento dello studio dell’idea che intendo affrontare, si sviluppa e riflette in maniera concreta anche nello spazio di lavoro che vivo come un laboratorio scientifico, dove l’indagine sui materiali e le sostanze, che vanno a comporre i vari elementi scultorei o installativi, rappresenta il carattere alchemico della mia pratica artistica. Ho scelto una formazione teorica e non “accademica” per configurare proprio quella lente attraverso cui leggere il fare artistico contemporaneo (alla luce del suo sviluppo storico) e, soprattutto, per mettere a fuoco il modus operandi che più mi rispecchia.
Sei un ricercatore, il tuo lavoro è pieno di simboli e interrogativi. Guardando le tue opere emergono temi universali come origine dell’opera d’arte, verità, indagine, corpo e spirito – servono lunghe pause per carpire tutti i significati\layer presenti nelle tue installazioni. Questo è un possibile, breve riassunto del tuo lavoro artistico; tu come ti racconteresti?
Un’indole mentale e la forte capacità analitica tradiscono senza dubbio quel carattere concettuale che tuttavia nella mia ricerca, una costante ricerca di senso, tento di equilibrare attraverso una resa formale che tenga sempre conto dell’osservatore. Di qui la predilezione per i temi universali e archetipici, lo sforzo di ricreare quello spazio dove autoconsapevolezza e simbolo interagiscano alchemicamente con lo spettatore, ma anche l’esigenza di ritrovare il corpo, che non mente. Un corpo diviso, analizzato con occhio clinico e spesso moltiplicato, la cui declinazione scultorea si fa poi linguaggio, si re-istituisce e forse restituisce (a me prima di tutto). La riflessione sul “giudizio”, ad esempio, iniziata nel 2018 e sviluppata a partire dal gesto dell’additare, ha trovato da poco il suo compimento in WHITE TORTUE intervento site-specific concepito per Italian Twist, mostra collettiva presso le Gallerie delle Prigioni – Fondazione Imago Mundi di Treviso. Il dito puntato (una tassonomia di oltre 1200 calchi in gesso raccolti in questi anni) è così estremizzato all’interno di una cella del 1700, diviene strumento di tortura ma soprattutto “indicativo” di quel senso di condanna che quotidianamente viviamo. Ma la realtà è una nostra proiezione e giudicando gli altri condanniamo sempre solo noi stessi, aspetti della nostra psiche che non accettiamo. La passione per l’esoterismo e la spiritualità fanno da sfondo a INRI (Igne Natura Renovatur Integra), un’opera sul fuoco della trasmutazione alchemica, o al progetto tuttora in progress nato dalla volontà di ripresentare e ri-formare (nel senso di dare una nuova forma) l’Atalanta Fugiens di Michael Maier, trattato alchemico pubblicato nel 1618. Tuttavia, il mio scopo ultimo è lasciar essere l’opera nel suo puro sussistere in sé stessa.
Quanto è importante la commistione di linguaggi nel tuo lavoro?
Ritengo la multimedialità modalità imprescindibile per un artista contemporaneo, l’ho verificato anche nei più conservatori e puristi, almeno in fase sperimentale e di ricerca. Da diversi anni prediligo la scultura e l’installazione come tecnica, ma laddove vi è una dimensione spaziale da occupare o rivedere, e l’approccio site-specific è senza dubbio quello più stimolante e formativo, mi è difficile non sentire vivo, nella definizione formale di un progetto, l’ideale wagneriano di Gesamtkunstwerk. Il concetto stesso di “installazione” forza lo scultore a un ripensamento nella logica del campo di applicazione. Nel 2015 ho iniziato a lavorare alla mia prima (ancora inedita) performance dal titolo ALEPH, un corpus di lavori fruibili come residuali dell’atto performativo stesso. L’intento compositivo è quello di affrontare il limite tra performance, teatro e arti visive alla ricerca di quello spazio pittorico dove azione e visione si fanno “teatro di immagine”. Non a caso considero Romeo Castellucci (e la Societas Raffaello Sanzio) il punto di riferimento e ispirazione che, anche nei momenti più critici, alimenta quel fuoco creativo che da sempre cammina con me.
Cerchi sempre di ricreare degli spazi di autocoscienza e, come abbiamo già detto, i tuoi simboli vorrebbero smuovere lo spettatore, in modo che si ponga degli interrogativi. Cosa vorresti che il fruitore percepisse? Vorresti delle risposte da noi che osserviamo le tue opere o è un continuo perpetuare il dubbio?
Nel 2019, durante il sopralluogo presso gli spazi dell’ex fabbrica di panettoni Giovanni Cova a Milano per la prima edizione di BienNolo, il cui tema erano le “fobie”, fui colpito dalla presenza di una vecchia cassetta del primo soccorso dalla quale è nato PHÀRMAKON, intervento site-specific sull’ipocondria che considero, a oggi, lo statement visivo della mia poetica. Quest’oggetto rappresenta per il “malato immaginario”, e con esso la sua funzione, il simbolo della medicina allopatica prefigurando nel senso comune l’ideale di “cura”. Svuotata del suo contenuto, internamente rivestita di specchi e aperta al visitatore lo induce a guardarsi dentro verso quella conoscenza di sé e del proprio corpo essenziali nel processo di guarigione. A ben vedere l’attento spettatore avrebbe potuto scorgere, sempre attraverso lo specchio e in lontananza sulla parete retrostante, una mattonella fatta di gesso sintetico e farmaci recante, inciso, un aforisma di Sant’Agostino: «Noli foras ire. In te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas.» (Non uscire da te stesso, rientra in te: nell’intimo dell’uomo risiede la verità). Ecco cosa vorrei percepisse il fruitore dalle mie opere, sé stesso. In fondo la risposta – citando Jodorowsky, altro maestro di opera d’arte totale – è la domanda.
Se arte contemporanea significa abbandono delle τέχνη [téchne], allora il termine non è più sufficiente, perché oggi, la maggior parte degli artisti non abbandona la tecnica, non l’ha mai conosciuta. Il tuo caso è ancora diverso, tu conosci una tecnica ma l’applichi in modo completamente diverso. Quindi ti chiedo, ti senti incluso in questa definizione?
Il problema della τέχνη [téchne] ‘tecnica’ nell’arte contemporanea, concetto di per sé semanticamente impegnativo, non è certo di facile risoluzione, o meglio non si presta a una soluzione univoca. Una definizione di “arte” che tenga conto del suo significato metafisico aristotelico, dove il termine greco non indica per prima cosa un “fare” ma appartiene piuttosto all’area semantica dell’episteme, della scienza, del sapere, è un “saper-fare”, sufficiente forse non lo è mai stata. Il tecnicismo artistico come il talento artigianale non bastano e l’artista non necessariamente deve saper-fare tutto. A livello scultoreo lavoro molto con la tecnica della formatura e del lifecasting, abilità che solo l’esperienza e tanti errori riescono a consolidare. Per quanto mi è possibile cerco sempre l’autonomia nello sviluppo di un’opera, anche nel rispetto della processualità che soprattutto nelle “sfide” si rivela particolarmente interessante, ma capita anche di dover coinvolgere artigiani e fornitori in grado di contribuire al meglio nella realizzazione dell’idea. I sentieri dell’arte dischiudono un senso del linguaggio che non è strumentale ma rivelativo: l’arte, non usa le cose se non per esporle nella loro verità. In questo senso l’opera d’arte è opera della verità.
Questo contenuto è stato realizzato da Manuela Piccolo per Forme Uniche.
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