Non si attraversa mai lo stesso fiume due volte. Visita a “Grand Bal”, la mostra di Veronica Ann Janssens la prima volta al buio e la seconda alla luce. E anche Pioverà, la performance di Anne Teresa de Keersmaeker l’abbiamo vista prima al buio e poi alla luce.
“Grand Bal” fa, dello spazio smisurato di Pirelli Hangar Bicocca, un luogo concentrato in interventi specifici che all’improvviso lo schiudono. Percorsi inusitati di mattoni, giardini di pietre, enormi teli cangianti, specchi che riflettono tagli nel soffitto che proiettano con forza immane la luce del sole all’interno e illuminano e colorano sculture che al buio risultano soprattutto trasparenti.
La rifrazione della luce nello spazio, nello spazio crea una rivoluzione, crea prospettive inedite, cambi di scena, percezioni che finora nessuno ha mai provato nell’Hangar. Interno ed esterno si miscelano dolcemente attraverso griglie leggiadre di rete metallica, lo spazio è si muove attraverso la luce, introducendo un elemento fondamentale, il movimento.
Quello delle altalene perse in un’altezza infinita, quello dei visitatori, quello di una danzatrice che lo spazio lo fa suo.
Non ci sono entrate né uscite, né camerini, non ci sono vie di mezzo.
Anne Teresa de Keersmaeker arriva, sposta con le sue mani le persone intorno al giardino di zen di pietre verdi, si ferma, si toglie le scarpe e i pantaloni, li appoggia per terra e con mutande, fucsia come la sua maglietta, sotto a una giacca scura, raggiuge il centro di quello che si chiama La pluie météorique e inizia a navigare trascinando i piedi in spirali sempre più ampie, questo piccolo oceano che dentro ai suoi passi prende forma. Penso a Spiral Jetty, penso alla Land Art, penso a quello che questa piccola donna forte e compatta ottiene muovendosi in cerchio.
Quando non ci sono più pietre da spostare, la coreografa si riveste e raggiunge una, potremmo chiamarla cabina, bianca, da cui esce luce stroboscopica colorata. È Blue, Red and Yellow, un’opera della Janssens.
E parte la musica, It’s gonna rain di Steve Reich. E parte la danza. Una frase che diventa ritmo, parole che esplodono in musica, movimenti che si spezzano su sillabe. La danzatrice entra in una trance veloce. Accanto a lei una ragazza down si mette a ballare una danza rotonda, ammaliante, eccentrica, una splendida danza del ventre, poi le due si sincronizzano, poi si distaccano, poi si seguono, poi si susseguono.
Il pubblico è mesmerizzato, la musica smette, la musica ricomincia. Stavolta quella di una pop star famosissima, impossibile stare fermi. Anne Teresa de Keersmaeker invita a ballare una bambina che sgambetta timida all’interno del grande cerchio. La ragazza down torna alla carica e stavolta i freni inibitori li si lasciano andare.
E ci mettiamo tutti a ballare, non c’è soluzione di continuità, non c’è palco, non c’è platea ma c’è solo uno spazio condiviso, questa è performance e non danza e siamo tutti ballerini. C’è chi si lancia nel mezzo e mostra le proprie mosse, è divertentissimo, è energia dilagante, tutti gli spettatori – un centinaio? – diventano danzatori.
La canzone si conclude, la performance anche. Entusiasti, si torna a casa.
La serata dell’inaugurazione della mostra, tuttavia, al buio, nessuno danzava – tranne la sottoscritta. Danzava e pativa questa cesura dello spazio tra palco e platea, tra danza e performance, come un’ingiustizia. La soglia, invisibile ma chiara, era quella nella relazione tra performer e pubblico come se non condividessero un territorio comune, che è invece quello della performance. Fiat Lux!